Emilio Tadini, “Pietà Rondanini”: testo dalla rivista Città Milano – numero speciale del 2002 edito un mese dopo la scomparsa del pittore e scrittore milanese.
Pietà Rondanini di Michelangelo al Castello Sforzesco, Milano
testo di Emilio Tadini

Pietà Rondanini di Michelangelo, fotografia di Pino Guidolotti e che illustra l’articolo di Emilio Tadini pubblicato da Città Milano
Al Museo del Castello Sforzesco, a Milano, è conservata una delle più grandi opere dell’arte occidentale: il gruppo marmoreo di Michelangelo: la Pietà Rondanini.
Il tragico, si potrebbe dire, è una “scoperta” dei greci.
La tragedia a teatro – con l’eroe che si alza a lottare contro il fato, e che finisce per essere abbattuto, sconfitto…
Le sculture di Fidia, con quel corpo agitato, sotto sforzo… Sono queste le fondamenta sulle “quali si edifica l’intero edificio dell’arte occidentale”.
Nella Pietà Rondanini, la figura del tragico si mostra con una evidenza quasi abbagliante. In quella sua capacità di protendersi verso il niente, la forma mette in scena, nello stesso tempo e nello stesso spazio, anche il proprio trionfo.
Rappresentare vuol dire “portare nel presente”. Non è forse come se, in questa scultura, la donna, lei, “rappresentasse” la morte nel corpo del figlio?
Nell’atto stesso di rappresentare, quella che noi chiamiamo “arte” è come se, simbolicamente, togliesse le cose dal mondo della morte. Come se si desse da fare per confermarle, per custodirle nel presente – in una specie di presente eterno.
Qui, Michelangelo abbandona lo schema più consueto di questo tipo di figurazione. Il corpo, il cadavere di Cristo non è disteso. Non è neanche abbandonato sulle ginocchia della madre – come nell’altra sua Pietà, in San Pietro.
Il gesto della madre, comunque, ci fa sentire la forza di un desiderio che si pone fuori da ogni ragionevolezza, ci fa sentire la forza di un desiderio del tutto assurdo.
Il desiderio – che si mostra nella decisione del gesto – di impedire che l’inerzia della morte disponga del corpo del figlio.
È come se la madre negasse la morte del figlio. (Quei “No!”, disperati, imperiosi, inutili, che si gridano di fronte all’Innegabile…)
È come se la madre volesse dimostrare follemente che il figlio morto può ancora stare in piedi. È come se cercasse di farlo camminare.
Semplicemente e in tutta la sua forza, il tragico è qui rappresentato dal fatto che tutte e due queste figure – la madre viva e il figlio morto – stanno in piedi.
Davanti a ogni figura scolpita, è come se noi si provasse una sensazione di lontananza, di solitudine. La nostalgia che è nelle statue… Qui, lontananza e solitudine sono nel cuore stesso di questo racconto particolare.
Di questa madre che con calma determinazione, e follemente, si affatica per tener su il corpo morto del figlio, la prima cosa che qui si rappresenta sembra la volontà di togliersi dal mondo delle cose – lo sforzo disperato per inoltrarsi nella solitudine assoluta. Come se avesse deciso non di portarlo, reggendolo, il corpo del figlio, come se avesse deciso di andare con lui, di accompagnarlo…
Il “non finito” di Michelangelo con la Pietà Rondanini
Michelangelo ha lavorato a varie riprese a questa scultura. L’ultima, poco prima di morire. Il “non finito”, qui, non dipende dal fatto che Michelangelo non abbia fatto in tempo o non abbia avuto modo di portare questa scultura a compimento. Il “non finito”, qui, è deliberato.
Michelangelo ha voluto che questa scultura restasse così.
Che cosa rappresenta, questo “non finito”? Rappresenta – porta nel presente – l’attualità stessa del gesto dello scultore intento a lavorare il marmo. Quella esperienza. Il suo non poter essere mai conclusa. Il suo porsi in primo piano. Una specie di autoritratto dello scultore al lavoro – nel lavoro…
Rappresenta anche, questo “non finito”, la fatica di chi si sforza, senza riuscirci, di definire una forma. Rappresenta anche quella che potremmo chiamare l’impossibilità di una forma conclusa, perfetta. In qualche modo potremmo anche dire che Michelangelo anticipa qui l’angoscia (la coscienza contraddittoria: la coscienza come coscienza della contraddizione) che sarà propria dei romantici, e poi di tutta l’arte contemporanea.
Anche lo sforzo di ribellione dell’eroe tragico si dà, fatalmente, al “non finito”. Anche lo sforzo di ribellione dell’eroe tragico finisce per trovare il proprio valore nell’atto in sé e non in un risultato di quell’atto. Perché lo sforzo dell’eroe tragico non può realizzarsi. Perché sua è la “forma spezzata”.
L’esposizione della Pietà Rondanini
(n.d.r: l’articolo è stato scritto da Emilio Tadini alla dine degli anni ’90) Quanti sono i milanesi, e i viaggiatori passati da Milano, che conoscono la Pietà Rondanini? Male esposto, peggio illustrato, questo capolavoro assoluto è, in pratica, un vero e proprio tesoro sepolto. Ma sappiamo benissimo dov’è, questo tesoro. E allora, disseppelliamolo.
La Pietà Rondanini è una di quelle opere che rompono tutti gli schemi e, naturalmente, anche gli schemi utilizzati da certi storici dell’arte, portati per loro natura a umiliare la verità della filologia, orgogliosi della propria miseria e capaci solo di scolorire ogni opera nel grigio di una anti-immaginazione professionale. (Così, per esempio, in nome di una omologazione cronologica ovvia quanto ottusa, i pittori nuovi della seconda metà del XIX secolo, che si vedevano splendidamente all’Orangerie, sono stati soffocati, al Museo D’Orsay, da una lugubre massa di pittura mediocre dipinta negli stessi anni e alici quale proprio quei pittori nuovi si opponevano con tutte le loro forze.
Il museo onnicomprensivo – se almeno non si suddivide nettamente in parti davvero omogenee, e contraddittorie – non può che essere mostruoso. E praticamente inconoscibile. L’archivio degli archivi – come spaventoso apparato digerente. La macchina progettata e costruita per produrre entropia…)
Si propone di bandire un concorso internazionale di architettura, su inviti, per il progetto di una piccola costruzione da edificare al centro del Cortile del Castello Sforzesco – destinata a ospitare la Pietà Rondanini. Quale grande architetto contemporaneo declinerebbe un invito come questo? Si riuscirebbe a costruire a Milano – con una spesa minima – un’opera importante della nuova architettura
internazionale. E si manifesterebbe con chiarezza il valore assoluto di questa opera. Negli anni a venire, centinaia di migliaia, milioni di persone – milanesi e non milanesi – sarebbero indotti a visitarla, a guardarla, a pensarla.
Emilio Tadini
Leggi anche l’articolo di Tadini pubblicato nel marzo del 1997 dal Corriere della Sera sulla mostra di Jean Tinguely al Centre Pompidou di Parigi
I numeri della rivista Città Milano – come tutto l’archivio testuale e pittorico di Emilio Tadini – sono a disposizione presso la Casa Museo fondata da Francesco Tadini e Melina Scalise a Milano: lo Spazio Tadini di via Niccolò Jommelli 24.
Per informazioni: francescotadini61@gmail.com
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