Pietà Rondanini di Michelangelo al Castello Sforzesco, Milano

Emilio Tadini, “Pietà Rondanini”: testo dalla rivista Città Milano – numero speciale del 2002 edito un mese dopo la scomparsa del pittore e scrittore milanese.

Pietà Rondanini di Michelangelo al Castello Sforzesco, Milano

testo di Emilio Tadini

Pietà Rondanini di Michelangelo, fotografia di Pino Guidolotti

Pietà Rondanini di Michelangelo, fotografia di Pino Guidolotti e che illustra l’articolo di Emilio Tadini pubblicato da Città Milano

Al Museo del Castello Sforzesco, a Milano, è conservata una delle più grandi opere dell’arte occidentale: il gruppo marmoreo di Michelangelo: la Pietà Rondanini.

Il tragico, si potrebbe dire, è una “scoperta” dei greci.
La tragedia a teatro – con l’eroe che si alza a lottare contro il fato, e che finisce per essere abbattuto, sconfitto…
Le sculture di Fidia, con quel corpo agitato, sotto sforzo… Sono queste le fondamenta sulle “quali si edifica l’intero edificio dell’arte occidentale”.

Nella Pietà Rondanini, la figura del tragico si mostra con una evidenza quasi abbagliante. In quella sua capacità di protendersi verso il niente, la forma mette in scena, nello stesso tempo e nello stesso spazio, anche il proprio trionfo.
Rappresentare vuol dire “portare nel presente”. Non è forse come se, in questa scultura, la donna, lei, “rappresentasse” la morte nel corpo del figlio?
Nell’atto stesso di rappresentare, quella che noi chiamiamo “arte” è come se, simbolicamente, togliesse le cose dal mondo della morte. Come se si desse da fare per confermarle, per custodirle nel presente – in una specie di presente eterno.

Qui, Michelangelo abbandona lo schema più consueto di questo tipo di figurazione. Il corpo, il cadavere di Cristo non è disteso. Non è neanche abbandonato sulle ginocchia della madre – come nell’altra sua Pietà, in San Pietro.
Il gesto della madre, comunque, ci fa sentire la forza di un desiderio che si pone fuori da ogni ragionevolezza, ci fa sentire la forza di un desiderio del tutto assurdo.
Il desiderio – che si mostra nella decisione del gesto – di impedire che l’inerzia della morte disponga del corpo del figlio.
È come se la madre negasse la morte del figlio. (Quei “No!”, disperati, imperiosi, inutili, che si gridano di fronte all’Innegabile…)
È come se la madre volesse dimostrare follemente che il figlio morto può ancora stare in piedi. È come se cercasse di farlo camminare.
Semplicemente e in tutta la sua forza, il tragico è qui rappresentato dal fatto che tutte e due queste figure – la madre viva e il figlio morto – stanno in piedi.
Davanti a ogni figura scolpita, è come se noi si provasse una sensazione di lontananza, di solitudine. La nostalgia che è nelle statue… Qui, lontananza e solitudine sono nel cuore stesso di questo racconto particolare.
Di questa madre che con calma determinazione, e follemente, si affatica per tener su il corpo morto del figlio, la prima cosa che qui si rappresenta sembra la volontà di togliersi dal mondo delle cose – lo sforzo disperato per inoltrarsi nella solitudine assoluta. Come se avesse deciso non di portarlo, reggendolo, il corpo del figlio, come se avesse deciso di andare con lui, di accompagnarlo…

Il “non finito” di Michelangelo con la Pietà Rondanini

Michelangelo ha lavorato a varie riprese a questa scultura. L’ultima, poco prima di morire. Il “non finito”, qui, non dipende dal fatto che Michelangelo non abbia fatto in tempo o non abbia avuto modo di portare questa scultura a compimento. Il “non finito”, qui, è deliberato.
Michelangelo ha voluto che questa scultura restasse così.
Che cosa rappresenta, questo “non finito”? Rappresenta – porta nel presente – l’attualità stessa del gesto dello scultore intento a lavorare il marmo. Quella esperienza. Il suo non poter essere mai conclusa. Il suo porsi in primo piano. Una specie di autoritratto dello scultore al lavoro – nel lavoro…
Rappresenta anche, questo “non finito”, la fatica di chi si sforza, senza riuscirci, di definire una forma. Rappresenta anche quella che potremmo chiamare l’impossibilità di una forma conclusa, perfetta. In qualche modo potremmo anche dire che Michelangelo anticipa qui l’angoscia (la coscienza contraddittoria: la coscienza come coscienza della contraddizione) che sarà propria dei romantici, e poi di tutta l’arte contemporanea.
Anche lo sforzo di ribellione dell’eroe tragico si dà, fatalmente, al “non finito”. Anche lo sforzo di ribellione dell’eroe tragico finisce per trovare il proprio valore nell’atto in sé e non in un risultato di quell’atto. Perché lo sforzo dell’eroe tragico non può realizzarsi. Perché sua è la “forma spezzata”.

L’esposizione della Pietà Rondanini

(n.d.r: l’articolo è stato scritto da Emilio Tadini alla dine degli anni ’90) Quanti sono i milanesi, e i viaggiatori passati da Milano, che conoscono la Pietà Rondanini? Male esposto, peggio illustrato, questo capolavoro assoluto è, in pratica, un vero e proprio tesoro sepolto. Ma sappiamo benissimo dov’è, questo tesoro. E allora, disseppelliamolo.
La Pietà Rondanini è una di quelle opere che rompono tutti gli schemi e, naturalmente, anche gli schemi utilizzati da certi storici dell’arte, portati per loro natura a umiliare la verità della filologia, orgogliosi della propria miseria e capaci solo di scolorire ogni opera nel grigio di una anti-immaginazione professionale. (Così, per esempio, in nome di una omologazione cronologica ovvia quanto ottusa, i pittori nuovi della seconda metà del XIX secolo, che si vedevano splendidamente all’Orangerie, sono stati soffocati, al Museo D’Orsay, da una lugubre massa di pittura mediocre dipinta negli stessi anni e alici quale proprio quei pittori nuovi si opponevano con tutte le loro forze.
Il museo onnicomprensivo – se almeno non si suddivide nettamente in parti davvero omogenee, e contraddittorie – non può che essere mostruoso. E praticamente inconoscibile. L’archivio degli archivi – come spaventoso apparato digerente. La macchina progettata e costruita per produrre entropia…)
Si propone di bandire un concorso internazionale di architettura, su inviti, per il progetto di una piccola costruzione da edificare al centro del Cortile del Castello Sforzesco – destinata a ospitare la Pietà Rondanini. Quale grande architetto contemporaneo declinerebbe un invito come questo? Si riuscirebbe a costruire a Milano – con una spesa minima – un’opera importante della nuova architettura
internazionale. E si manifesterebbe con chiarezza il valore assoluto di questa opera. Negli anni a venire, centinaia di migliaia, milioni di persone – milanesi e non milanesi – sarebbero indotti a visitarla, a guardarla, a pensarla.

Emilio Tadini

Leggi anche l’articolo di Tadini pubblicato nel marzo del 1997 dal Corriere della Sera sulla mostra di Jean Tinguely al Centre Pompidou di Parigi

I numeri della rivista Città Milano – come tutto l’archivio testuale e pittorico di Emilio Tadini – sono a disposizione presso la Casa Museo fondata da Francesco Tadini e Melina Scalise a Milano: lo Spazio Tadini di via Niccolò Jommelli 24.

Per informazioni: francescotadini61@gmail.com

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Jean Tinguely mostra al Centre Pompidou, Parigi – di Emilio Tadini

Jean Tinguely mostra al Centre Pompidou, Parigi – di Emilio Tadini. Le chiamiamo sculture, le opere di Jean Tinguely (1925-1991). Ma non sono certo sculture nel senso classico della parola – cosi comincia l’articolo di Tadini pubblicato il 4 marzo del 1997 sul Corriere della Sera:

Jean Tinguely: il circo meccanico e le macchine inutili

Jean Tinguely

Jean Tinguely al Centre Pompidou di Parigi, dall’articolo di Emilio Tadini per il Corriere, marzo 97

Sono macchine, con piccoli motori che le muovono. Ma — ecco un’altra contraddizione — non sono macchine come le altre. Sono macchine paradossali. Non producono niente. Consumano un po’ di energia per produrre soltanto la forma del proprio funzionamento. Per offrircela, così come si offre uno spettacolo. Ed è proprio un grande spettacolo la mostra a Parigi di Jean Tinguely. Una specie di circo meccanico. Acrobazie, effetti comici, eccentricità. Una fabbrica di puro divertimento.

Aristotele diceva che la Natura è il regno delle cose che si generano da sole, mentre la Tecnica è il regno delle cose fabbricate. Ora, è indubbio che le macchine di Tinguely sono un prodotto della Tecnica, anche se, in questo caso, si tratta di una tecnica deliberatamente strampalata. Ma producendo soltanto avventure immaginarie e giochi formali regolarmente spinti fi­no all’assurdo, que­ste macchine lavorano la Tecnica ai fianchi, la mettono alle corde, addirittura fuo­ri combattimento. Ambiguità, piccole complicazioni. C’è di tutto, nel pacco-do­no che Jean Tinguely propone con le sue macchine paradossali. E come sono fatte queste macchine-clown, queste macchine che sognano, queste macchine che giocano? L’artista prende frammenti metallici di cose fuori uso, sfasciate, ridotte a pezzi. E poi li mette insieme, e ricompone una forma, anzi, un organismo, un corpo funzionante. E lo muove con un motore elet­trico.

Jean Tinguely, l’esposizione al Centre Pompidou e il bricolage

Alla base del lavoro di Tinguely c’è il procedimento del bricolage. Ora, la pa­rola «bricolage» non indica soltanto il «fai da te», può definire anche l’operazione mediante la quale noi prendiamo parti di vecchie cose e le mettiamo insieme, dan­do vita a una cosa nuova, destinata a qual­che uso o semplicemente al nostro piacere. Si alzano, nel mondo, montagne di rot­tami. Il bricolage di Tinguely si propone allegramente anche come il simbolo di una riparazione, di un recupero.

Andiamo a vederlo, il Grande Circo Meccanico di Jean Tinguely. Diamo anche solo un’occhiata a una delle sue macchine. È come se l’immaginazione si desse un gran da fare, in mezzo ai rifiuti, per ridare vita a ciò che è morto, per ridare dignità all’i­gnobile. Uno degli effetti più felici di questa opera si dà nell’evocare in noi la figura di qualche vecchiume ringiovanito. Vecchie cose, arrugginite e impolverate, ricominciano a muovere le loro membra sgangherate, miracolosamente si mettono a danzare.
Ricordate Kantor, il pittore-regista del­la Classe dei morti, che faceva muovere i corpi dei suoi attori come ‘ atroci mario­nette, dentro una cu­pa, tragica, emozio­nante meccanica tea­trale?

Il teatro della vita nelle sculture di Tinguely a Parigi

Jean Tinguely lavo­ra non con i corpi, ma con le cose. Con le sue macchine inventate. Ma è un paradossale teatro del­la vita, quello che lui mette insieme. Agisce il comico,
in questa opera. Quel comico che entra sempre in scena dopo che su quella stessa scena il tragico ha ostentato non soltanto la propria disperazione, ma anche la caduta di ogni speranza. Quel comico che ha il dovere di aiutarci a vivere, nonostante il tragico, nonostante tutto. Quel comico che si prende gioco dei falsi valori, che guarda le cose dal punto di vista del Niente, certo: ma che così facendo illumina il Valore del nostro sguardo. Mandano suoni le macchine di Jean Tinguely. Sentiamo l’ar­rancare del congegno, sempre. E poi, ogni tanto, un pezzo di ferro che batte su un altro, un cigolio più forte, un campanello messo in azione da qualche inverosimile torsione della macchina. Proprio una musichetta gloriosa.

Emilio Tadini

Leggi anche “La deposizione di Emilio Tadini” in un pezzo di Franco Quadri per la Repubblica 

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Andrée Ruth Shammah regista de La deposizione di Emilio Tadini

Andrée Ruth Shammah firma la regia de La deposizione di Emilio Tadini interpretata magistralmente dall’attrice Anna Nogara al Teatro Franco Parenti. La casa editrice Einaudi pubblicò nel ‘97 il libro di Tadini, nella collana dedicata al teatro. Pubblichiamo l’articolo con il quale Renato Palazzi recensì lo spettacolo il 20 aprile 1997, sul giornale Il Sole 24 ORE.

La deposizione di Emilio Tadini

La deposizione di Emilio Tadini, messa in scena da Andrée Ruth Shammah nel 1997

Per il teatro è evidentemente l’anno della cronaca nera che assurge ad assolutezza metafisica: dopo infanticida Rina Fort evocata dalla Me­dea di Ronconi, ecco infatti una sorta di Mantide descritta da Emilio Tadini nel suo monologo La deposizione, in scena in un suggestivo stanzone nei meandri del Teatro Franco Parenti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la deposizione del titolo non è infatti il soggetto religioso di tanta pittura medioevale, non ha niente a che fare con la croce, è una deposizione resa in tribunale, la lunga perorazione d’inno­cenza di una donna accusata di sette omicidi davanti a una giuria che coincide col pubblico.

 

Questa donna ha un nome, Eli­de Zampetti, ma ad attribuirglielo è stato lo staff del teatro – con la regista Andrée Ruth Shammah – non l’autore, per il quale il personaggio resta avvolto in un’aura di anonimato. Non sappiamo che mestiere faccia, e dove abiti, anche se si può immaginare il suo rispettabile appartamentino periferico. Ovviamente ignoriamo se sia colpevole o innocente, e continueremo a ignorarlo: risulta solo che ha avuto delle storie con certi uomini, che li ha rinvigoriti, recuperati alla vita, che poi costoro l’hanno abbandonata, e in seguito a ciò — a uno a uno — sono misteriosamente scomparsi.

Il breve testo, un’ora scarsa di durata, è tutto qui, in questo risalire a comportamenti che restano avvolti nell’ombra, in questo profluvio di parole un po’ sconnesso che non ci porta a una verità ma solo a un agitarsi di sentimenti che spiegano tutto e non spiegano nulla. E forse l’ambiguità del titolo è, se non voluta, almeno pertinente nel delineare una figura — appena virata sul grottesco — di moderna madonna metropolitana, una stralunata madonna assassina che se non partorisce vergine conserva comunque una strana purezza che forse le consente di uccidere senza perdere la sua sostanziale innocenza.
Proprio l’indeterminatezza, la duplicità, l’ambivalenza di giudizio sono il pregio e il limite di questa Deposizione.

Emilio Tadini costruisce abilmente il ritratto di una femminilità sospesa tra quotidianità e delirio, tra normalità ed emarginazione, ma la sua lingua è come sovrastata dai vilup­pi psicologici, si fa lieve e fin troppo prevedibile, corre via senza optare né per il dramma né per la dolorosa ironia che pure a tratti ne emerge. La regia di Andrée Ruth Shammah, una regia di piccoli gesti, di minime sfumature, dà corpo e carne a questa creatura verbale, interpretata con penetrante adesione da Anna Nogara, mentre lo spazio ideato da Gian Maurizio Fercioni lascia in­travedere una cella oltre la quale si apre un enigmatico “altrove”.

Renato Palazzi

La deposizione, di Emilio Tadini
regia di Andrée Ruth Shammah
Teatro Fran­co Parenti, Milano
Aprile 1997

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Emilio Tadini: parole & figure di Pagine d’Arte

Emilio Tadini: parole & figure di Pagine d’ArteMatteo Bianchi e Carolina Leite ringraziano Antonia, Michele e Francesco Tadini per la collaborazione affettuosa. Sono particolarmente grati a Melina Scalise, presidente dello Spazio Tadini che conserva l’archivio delle opere dell’artista. Grazie di cuore agli amici, autori di testimonianze preziose, e a Arturo Carlo Quintavalle che ha scritto il saggio su misura, ideale per questo libro.

Emilio Tadini – E ancora. Ciel vague, di Matteo Bianchi

Emilio Tadini

Emilio Tadini Parole e figure

Dal bellissimo volume di Pagine d’Arte, 2016 ISBN 978-88-96529-92-8 – vedi link alla pagina web dell’editore

In esordio, ciel vague: ci siamo incontrati tempo fa nello spazio magico legato alla costruzione del cielo. Ciel vague, come terrain vague, è uno spazio in trasformazione che si modifica: l’area dismessa si accende di speranza, si anima la scena di un’altra rappresentazione che, accanto alla coscienza del crollo, riflette il bisogno di senso. Lo schermo vuoto si riempie, come le pagine del nostro libro che ricompone il collage di parole&figure e quello speciale bricolage che riunisce “l’insieme delle cose”.

Quante parole dipinte, lette e viste – in bianco e nero e di tutti i colori – si rivelano al nostro sguardo? Sono almeno mille foglietti, pagine di diario, appunti, citazioni; matite che scrivono testo e parole fra i colori, lettere sull’arte in un mare di carte disegnate sul tavolo e trattenute fra gli anelli di un raccoglitore. E il mare come il cielo, in una stanza: l’atelier con le cose di tutti i giorni, oltre la finestra la stesura dei colori, il disegno di panni stesi al sole e la tela grezza mossa al vento in attesa dei segni. E ancora, matite di tutti i colori mischiate fra le carte al segno della scrittura.

Nella sua varietà, l’insieme delle carte custodisce la differenza. I frammenti del quotidiano, scaglie di pensiero, si accordano fra le pieghe della diversità: grande e piccolo, pieno e vuoto, comico e tragico, vicino e lontano fra memoria e progetto – in prospettiva, nel silenzio della pittura. L’arte della memoria suscita la distanza fra nostalgia e desiderio: altrove una volta, qui e non qui, adesso e mai in nessun luogo… c’era una volta la fiaba della pittura, creativa, senza tempo in libertà.

Emilio Tadini scrisse: le figure sono ombre, le ombre delle cose portate dalla luce dello sguardo

Emilio Tadini

A Spazio Tadini in consultazione: Emilio Tadini Parole e figure a cura di Matteo Bianchi

Le figure, le cose. Emilio in versi scriveva: “le figure sono ombre, le ombre delle cose portate dalla luce dello sguardo”. Forse, come diceva lui, quasi un presentimento, perché avvertiva “l’oscuro bagliore del futuro”. Oltre questo presagio, è un vero piacere continuare a scrivere parole dipinte – les mots dans la peinture – mentre segni di vita e colore si dispongono fra le pagine di questo ciel vague, nel collage di questo libro, in sequenza come in un film.

Poetica multilingue quella di Emilio, in anticipo sui tempi e fuori dagli schemi. Nel suo ciel vague si incontrano arti e lettere, cinema teatro e musica, pensieri filosofici e fatti quotidiani, citazioni colte, foto e ritagli. Il suo caro bricolage corrisponde al nostro collage dove la mano sapiente costruisce il linguaggio.

Quando si pensa alla costruzione del cielo che si disegna nell’orizzonte verticale, affiora il ricordo della foto speciale degli operai sulla trave sospesa nella città che sale, a Manhattan. Per analogia, l’arte della memoria suggerisce l’immagine mitica che racconta la voglia di crescere, di fare bene. In questo spazio magico, trovano iscrizione ideale l’atto creativo e il gesto poetico di Emilio, positivo e solare. E ancora, ciel vague…

A Spazio Tadini la biblioteca per la consultazione

Francesco Tadini e Melina Scalise conservano delle copie del volume, nato dai quaderni di note e appunti di Emilio Tadini nella biblioteca di via Jommelli 24 a Milano alla Casa Museo Spazio Tadini dedicata al grande artista. I quaderni stessi di Tadini sono in consultazione presso l’associazione culturale.

Leggi anche l’articolo di storia dell’arte contemporanea Emilio Tadini  su Max Ernst.

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Vasco Pratolini: il romanzo

Vasco Pratolini

Vasco Pratolini e la rivista Quaderni Milanesi, diretta da Oreste del Buono, dialogano sul romanzo

Vasco Pratolini e Quaderni Milanesi: dialogo sul romanzo – Chiunque si sia occupato di lei in questi anni, Pratolini, ha insistito sulla data di nascita della sua opera. Il suo primo libro, Il tappeto verde è del 1941, al limite, insomma, della stagione ermetica : può dirci quali sono stati i suoi rapporti con quella corrente : vi ha appartenuto effettivamente, ne è effettivamente rimasto influenzato in tutto il primo periodo del suo lavoro, e, comunque, cosa ne pensa adesso, in una prospettiva quasi storica?

Vasco Pratolini

L’ermetismo non fu soltanto poesia, fu anche critica e costume, né esautorò mai l’esperienza narrativa. La sua identificazione della letteratura come vita, il continuo colloquio con le letterature straniere, lo stesso conflitto apertosi nelle sue file, concorsero a preservare buona parte di quella fermezza morale che venne poi a riversarsi nella cultura democratica. Certo, il suo rifiuto al­l’ideologia, come l’istanza cattolica che vi serpeggiava, se erano altrettanti segni rivelatori del suo anticonformismo, ne rappresentavano nello stesso tempo il limite maggiore. Ecco perché va assunto come una lezione che non poteva lasciare eredità … In tutto questo, il mio lavoro di quegli anni (1936-1940) non ha nessuna importanza. Debitore di un movimento che nel rigore dello stile, nell’effusione e insieme nella essenzialità dei sentimenti esprimeva il meglio di sé, già con Via de’ Magaz­zini (1942) suppongo di esserne stato fuori. Sussiste la lietezza mia privata di avere percorso, come condiret­tore di «Campo di Marte», come amico e come sodale, un pezzo di strada insieme ai maggiori poeti della mia generazione. . . Ciò che oggi dobbiamo considerare, non è l’agnosticismo degli ermetici, che in età fascista si configurava in una presa di posizione anche politica, ma le risorgenti teorizzazioni di un désengagement che sembrano annunciare le condizioni per nuove forme di dittatura borghese. Voglio dire che qui non si tratta più, secondo la felice espressione di Vittorini, di pifferai della rivoluzione ; oggi come oggi, poniamoci attenzione, la letteratura italiana, pur ricca di personalità e di opere, rischia di battere strepitosamente i piatti al neocapitalismo.

Quaderni Milanesi

Dopo le prime pagine, riconosciute di carattere prevalentemente autobiografico, si è a lungo classificata la sua opera sotto l’etichetta del neorealismo. Lei ritiene che il neorealismo sia stato un movimento unitario della nostra letteratura oppure solo una formula di comodo per avvicinare più autori, più testi magari profondamente dissimili, un’approssimazione, insomma, lontana dalla verità?

Vasco Pratolini

Il neorealismo, è evidente, non fu né un movimento unitario né una «scuola». Tuttavia, non mi limiterei a parlare di etichetta e di formula di comodo. Ciò che consentiva di riunire sotto un unico denominatore autori tanto diversi tra loro, era il bene della libertà appena riconquistata, lo slancio comune di far coincidere uno stato d’animo generale con un’operazione culturale e ideologica i cui termini non permettevano più evasioni e giochi dell’intelligenza, questo secolare marinismo della nostra letteratura, così facile, così scoppiettante, e così bète . . . Era l’ora della verità, e anche la personale disperazione, l’incapacità di comunicare, dovevano fare i conti con il «sangue delle cose» : come sempre, soltanto che allora non si poteva fingere di non accorgersene e tentare di mistificarlo. Per quanto orecchiato, il marxi­smo a cui un po’ tutti bruciavamo incensi, seppure consentiva di definire come tali i fìgliolini di Zdanov, ci te­neva tutti giustamente confitti tra i fiori e il pantano della realtà . . . Non si poteva parlare d’altro, sentiva­mo di non averne il diritto. Quando i nutrimenti della storia (ecco un’altra verità ch’era impossibile rifiutare !) si disvelano nelle ore della cronaca che esige la tua partecipazione, tutto, a partire dai tuoi privati fantasmi, di­venta meno importante … La crisi, poi, del cosiddetto neorealismo, sancì un 18 aprile letterario, dal quale emerse con quanta dose di «innocenza» diciamo, era stata trattata una materia incandescente. Fu, nuovamente, l’eclisse dell’ideologia. L’istanza realista, espressa in chiave naturalistica alla fine dell’Ottocento, decadde per lassismo. Al momento in cui si sarebbe dovuto incominciare a maneggiarlo, cotesto fuoco, e vedere dal­l’interno il personaggio operaio, a rendere paradigmatico di tutta una condizione sociale il personaggio borghese, quando avremmo dovuto risalire dagli effetti al­le cause della realtà che giorno per giorno ci assedia, si preferì il salto che rimise in pari la letteratura con la vita. La violenza che il narratore è tenuto ad operare sul suo tempo, prese ad indugiare su argomenti esornativi, non si esercitò più sui problemi di fondo : il crocevia dove Balzac e Stendhal, Education sentimentale e Guerra e Pace, procedono affiancati; dove l’angoscia di Kafka dà la mano al delirio di Dostoievski; e Faulkner e Sciolokov da un lato, Pasternak e Hemingway dall’altro, ci intro­ducono, come dei classici ormai, alla conoscenza delle due diverse civiltà che condizionano il mondo contem­poraneo . . . Non ci si costrinse più a cogliere, nella rap­presentazione di un ambiente, «le ragioni del suo movi­mento». Pungolati da un’esigenza di modernità, giusta nei suoi termini opinabile nelle sue resultanze, ci si ri­proposero nuove tecniche, nuovi sofismi, per azionare ancor più vecchie poetiche, ancor più longevi strumen­ti.. . Del resto, la svolta letteraria degli anni Cinquan­ta non ha forse corrisposto all’arretramento dei partiti operai, di tutti i partiti operai, su posizioni unicamente difensive; e allo spavaldo avanzare della «nuova bor­ghesia», apportatrice di benessere, a che prezzo fruito ce lo dirà l’avvenire più immediato? Non si assiste forse quotidianamente al fenomeno, documento d’una terribile condizione degli spiriti, per cui la vita pubblica di uno scrittore, le sue professioni di fede, i suoi interventi di cittadino, sono infinitamente più avanzati, progressivi, illuminanti della sua opera creativa? Quando Robbe -Grillet, per esempio, sostiene che uno scrittore deve a- vere «la piena coscienza dei problemi attuali del suo proprio linguaggio, la convinzione della loro estrema importanza, la volontà di risolverli dall’interno», dice qualcosa di molto giusto, e di molto arcaico. Di elementare. Ma quando aggiunge, sottoscritto da molti dei no­stri, che questa è la sola forma di engagement, «la sola possibilità di restare un artista e anche, senza dubbio, per via di conseguenza oscura e lontana, di servire un giorno forse a qualcosa, forse alla Rivoluzione stessa», non si può fare a meno di osservare che la prima conseguenza chiara e vicina è che per intanto, ancorché non autorizzati, se ne giovano i suoi (e nostri) De Gaulle . . . Ovvia­mente, il mondo cammina; guardarlo adesso con gli occhi del ’45 e del ’50 sarebbe ridicolo più che ozioso. . . Senonché, invece di tenere il passo con la problematica del realismo, approfondendola nel tempo, anticipandone le lacerazioni, si è preferito accantonarla. Questo non significa averla risolta o superata; tanto meno che essa non rappresenti ancora oggi la misura del nostro lavoro, il più spregiudicato.

Quaderni Milanesi

Lei ha avuto due critiche; due fazioni si sono schierate per il lirismo dei testi iniziali o per la cronaca dei testi a quelli immediatamente successivi. Quando con Me­tello ha inaugurato la trilogia «Una storia italiana», mentre la prima fazione ha insistito nel rimproverarle il progressivo allontanamento dall’atmosfera privata delle prove autobiografiche, la seconda fazione s’è divisa, a sua volta, in due tronconi : uno entusiasta per il «costruttivismo» della nuova opera ha asserito e proclamato il suo definitivo passaggio dal neorealismo al realismo, l’altro ha ostentato perplessità o addirittura ostilità nei riguardi del suo tentativo di approfondire e dilatare la cronaca nella storia. Questo non è un invito alla polemica con i suoi critici, ma caso mai a chiarir meglio loro il senso del suo lavoro : come giudica il disorientamento con cui amici e nemici hanno accolto il secondo titolo della trilogia, Lo scialo?

Vasco Pratolini

Probabilmente per la sua novità, o per la sua mole. In verità, credo di non avere nulla da chiarire, se non in­vitando a una rilettura meno frettolosa e meno passionale. Si scoprirebbe tra l’altro che diversi personaggi de Lo scialo sono gli stessi, coi loro nomi e situazioni, di Una giornata memorabile, dei Poveri Amanti e di Metello, reintrodotti non per civetteria, ma perché indagati nei loro casi umani da un punto di vista decisamente razionale, mentre originariamente erano rappresentati ancora dentro la sfera dei sentimenti; e che la presenza del sesso è sottolineata in quanto componente non secondaria dell’oscurantismo e della barbarie borghese. Lo stesso quadro d’insieme del romanzo, ambisce a trovare un’unità nella pluralità delle voci, registrate attraverso la loro segreta eloquenza, e nella comune vicenda, l’una illuminante la storia e il destino dell’altra il che, casomai, ribalta ma certamente non ripropone il monologo interiore.
Ripeto, questi sono fatti marginali; e io detesto le au­todifese. Dirò piuttosto che i contrasti suscitati dai pri­mi due libri di «Una storia italiana», mi sono stati preziosissimi: mi hanno costretto a rimeditare tutto il mio lavoro e a persuadermi della sua sostanziale ragio­ne: ho scelto una strada lunga che non consente né precipitosità né aggiramenti. (In tal senso, per limitarmi a due maestri, le diverse accoglienze che Lo scialo ha tro­vato, positiva in Salvatore Battaglia, negativa in Emilio Cecchi, si compensano. Meglio, l’aver messo d’accordo, fin negli aggettivi, Carlo Salinari e Padre Nazzareno Fabretti). Il solo rischio, enorme, che corro, è nella du­rata di questo impegno, nella capacità di resistere all’u­miltà che esso comporta. . . Certo, è un lavoro comples­so, molto scomodo, molto importuno, che mi ha preso anni e altri me ne prenderà, con periodi di un vuoto desolante, paralizzato dall’ambizione, e vacanze forsen­nate da cui come in questi giorni ne esco con delle «cronache familiari» nelle quali, sicuramente, si continue­rebbe a ritrovare la mia «vera natura e vocazione». Ma non è questo che adesso mi interessa. Io, e penso che questo nessuno mi vorrà contestare, non ho mai scritto per scrivere, per ornamento, per abitudine, per noia, per obbligo professionale, neanche quando ho fatto del giornalismo e da cronista sportivo mi sono interessato di calcio, di ciclismo e di atletica. Ho sempre scritto: l’ho già detto in un’altra occasione, è il mastice che mi tiene fisso al tavolo anche per mesi, così come durante degli anni addirittura ne rifuggo come fosse un lazzaretto : fio sempre scritto per raccontare a me stesso in primo luogo qualcosa che mi premeva conoscere, degli uomini esat­tamente, e della vita, che non mi riusciva di trovare al­trove, che appena intuivo e dovevo quindi di volta in volta scoprire; e rendermene conto e contraddirmi, pur di arrivare a intravedere uno spiraglio di verità. . . Uno spiraglio di verità è retorico ma è così: sempre troppo stretto, e che ogni volta pretende di essere approfondito, riesplorato in altra direzione o per insistenza. D’altron­de, non sarò mai capace di riprendere in mano un lavo­ro già stampato (decidendomi a licenziarlo l’ho perdu­to) ; si tratta piuttosto di scrivere un nuovo libro, che poi è sempre lo stesso libro. Adesso ho voltato le spalle all’opera ispirata : non ha ancora finito di tentarmi que­sta work in progress, un libro ogni cinque anni magari, non vedo altra salvezza: questa inesauribile presa di conoscenza, per cui, come dicevo, consumata ogni emo­tività, risalire dagli effetti alle cause della realtà che ci coinvolge; e dove conquistare, di volta in volta, il lin­guaggio intrinseco alla materia, quel lavoro sulla forma donde il contenuto esce migliorato (Gramsci) : dall’e­sterno all’interno del personaggio, dalla coralità alla psicologia. Una marcia d’avvicinamento verso il cuore dell’uomo moderno, colpendolo nelle sue sopravvivenze, nelle sue verità sotterrate, nelle sue persistenti perfidie. Qualcosa ben al di fuori del laboratorio, che assomiglia alla ricerca ma esclude la sperimentazione. Poiché, qui da noi, l’energia che muove l’universo non è dove, con opere anche sicuramente durature in quanto esse mede­sime frutto di una sopravvivenza, si crede di desumer­la. .. È in tutto quello che per gran parte noi ignoriamo e che supponiamo di tenere a bada. Mentre molto spes­so teniamo a bada noi stessi, col nostro stesso fragore.

Quaderni Milanesi

In occasione dell’ultimo premio Strega, quello vinto da Ferito a morte di Raffaele La Capria, l’abbiamo veduta battersi per Delitto d’onore di Giovanni Arpino, e non abbiamo ben capito il suo impegno a difendere e sostenere un romanzo che ci pare l’incarnazione dei peggiori difetti del periodo neorealista, difetti neppure più giustificati da una situazione storica, sociale, cascami ottocenteschi addirittura usati freddamente, formalisticamente. Può darsi che sbagliamo noi, ma potrebbe spiegarci la sua scelta? Una sua spiegazione ci aiuterebbe, eventualmente, a correggere un nostro errore di visuale.
Vasco Pratolini
È molto semplice: ho sostenuto il romanzo di Arpino per l’autenticità e il significato del suo contenuto, anche se nel suo insieme Delitto d’onore può dare l’impressione di un’opera volontaristica, dove la realtà è soprattutto interrogata e poco dialettizzata, reinventata, sorretta e strutturata dalla fantasia. Malgrado questo, Arpino, e ne ha dato delle prove molto più esaurienti, con La suo­ra giovane per esempio, è tra i narratori della sua generazione uno che ha cose e non ectoplasmi, da raccontare. Non c’entra il romanzo di tipo ottocentesco, c’entra semmai il pericolo, che non riguarda lui solo, di una certa disponibilità. Là dove la scelta diventa determinante.

Il dialogo di Oreste del Buono con Vasco Pratolini viene pubblicato nel 1962 sulla rivista Quaderni Milanesi ed è, oggi, anche in consultazione  nella biblioteca della Casa Museo di via Jommelli 24: Spazio Tadini a Milano, fondata e diretta da Francesco Tadini e Melina Scalise. 

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Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, romanzo, 1962

Il giardino dei Finzi-Contini

Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani – in un testo di Oreste de Buono – dalla rivista Quaderni Milanesi, primavera 1962

Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, romanzo, 1962 – di Oreste del Buono (in Quaderni Milanesi) Gli occhiali d’oro, il bellissimo racconto imperniato sulla tragica an­sia d’amore del dottor Fadigati, pareva un culmine difficilmente superabile nella carriera letteraria, cauta eppure ricca, di Giorgio Bassani. Ma con questo romanzo, Il giardino dei Finzi-Contini, ap­pena edito da Einaudi, una misura che lo scrittore non aveva mai affrontato – Bassani ci dà un testo ancora più denso, commosso e commovente, un testo dotato d’una sua dolcezza e d’una sua perentorietà veramente innegabili, saremmo quasi tentati di dire impareggiabili nel quadro della nuova narrativa italiana.
Il lavoro al suo primo romanzo ha occupato Bassani dal ’58 al ’6i. Rispondendo tre anni fa a un’inchiesta di Nuovi Argomenti lo scrittore affermava: «Non credo alla crisi del romanzo (italiano). Altrimenti, come potrei pensare di scriverne io stesso? Sto tentando di scriverne uno, infatti: forse non riuscirò a realizzarlo come vorrei, forse non riuscirò nemmeno a portarlo a termine. Eppure, quando mi sarò reso conto, ancora una volta ,della mia impotenza, mi guarderò bene dal cadere nell’errore di molti, sempre pronti a imbastire sulle proprie debolezze e deficienze delle teorie generali. Penso a Pavese, alla sua insofferenza di dieci anni fa nel sentire que­ste stesse campane a morto. Penso anche all’esempio di Stevenson. Stevenson era Stevenson, d’accordo : ma bisognerà pure imitare la sua fede, ripartire ogni volta, come lui, gettando tutta la posta sul tavolo, avendo per mèta il capolavoro ! In caso contrario che senso avreb­be tenere la penna in mano? …» Raramente abbiamo visto le ipotesi enunciate in un’inchiesta venire così puntualmente con­fermate dalle realizzazioni. Bassani ha avuto fede nel romanzo e in se stesso come autore di romanzo, non ha avuto paura della meta che si proponeva, a questa passione e a questo coraggio dobbiamo il libro che abbiamo appena finito di leggere e di cui vogliamo subi­to segnalare l’importanza.
Sempre tra le risposte di Bassani alla stessa inchiesta troviamo le affermazioni : «In Italia, comunque, dubito che possa nascere nulla di veramente utile, oggi, nel campo della narrativa, al di fuori della letteratura. Alcuni miei amici, per altro finissimi letterati, sono di avviso contrario. Io, per me, persisto a non dar molto cre­dito, qui da noi, agli ex camionisti, o ex sguatteri, o ex ciclisti, o ex aviatori, ecc. ecc. audacemente indottisi (da soli, o istigati da terzi) a scrivere racconti e romanzi di vaga eco hemingwayana, come se Hemingway, dal canto suo, a parte le personali pose da protagonista, da «duro» romantico-decadente, non fosse poi un letterato di prima forza. . . Si sa che tutte le strade vanno be­ne, o male: e che l’unica cosa necessaria a un romanzo perché funzioni — l’unica che l’acqua del suo linguaggio deve lasciar trasparire – è la ragione per la quale esso è stato scritto, la sua ne­cessità. . . Non sarà magari attraverso un ripensamento storico del­la nostra realtà nazionale che sarà possibile uscire dalle secche crepuscolari e sentimentali del neorealismo postbellico? . . . Come scrittore, ho sempre guardato più all’8oo che al ’goo; e fra i grandi romanzieri di questo secolo, a quelli come Proust, James, Conrad, Svevo, Joyce (il Joyce dei Dubliners’) e Thomas Mann, ad esempio, che derivano direttamente dal secolo scorso. Personalmente, non ho ambizioni letterarie di tipo balzachiano. Non mi importa nulla dare un quadro generale della nostra società. Vorrei poter scrivere qualcosa che si avvicinasse al lirismo e alla tensione narrativa dei Malavoglia, di Senilità, e soprattutto della Lettera Scarlatta di Haw- thorne : libro che non posso rileggere, ogni volta, senza provare la più violenta commozione. . .»

La novità del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini

Bassani verrà preso, forse, — quando questo numero della nostra rivista uscirà il libro avrà già cominciato la sua vita ufficiale – come vessillifero del più acceso ritorno all’8oo narrativo da tutti quei critici e recensori in malafede che temono una cosa soltanto a questo mondo: trovarsi davanti a un libro per cui non abbiamo già pronti gli schemi, le reti, un libro che non possano giudicare come ne hanno già giudicato un altro, più altri : tutti coloro che prediligono i testi nati vecchi, consunti, i testi effettivamente formalisti con, dentro, appena l’ammiccare di un contenuto creduto nuovo, o almeno attuale, esulteranno, forse, per II giardino dei Finzi-Contini. Poco male: una volta tanto faranno una cosa giusta, sbagliando. Perché questo romanzo di Bassani è nuovo, radicalmente nuovo, nella sua vernice di apparente, esclusivo rispetto per quanto è de­corosamente antiquato. La letteratura umanissima di Bassani, il suo rigore stilistico non vanno mai disgiunti in II giardino dei Finzi- Contini da una spregiudicatezza agguerrita, persino un poco crudele, capace di togliere di mezzo di colpo qualsiasi patina patetica per mostrare persone fatti cose in una luce esattissima.
Il giardino dei Finzi-Contini è deliberatamente — persino troppo de­liberatamente – romanzo d’amore. L’amore del narratore – questo occhio, questa coscienza instancabilmente in giro per una Fer­rara sempre più centro dell’universo, sempre più universo, fulcro e misura d’ogni avvenimento storico o viscerale – per una voce, un sorriso, un’ombra che potrebbero essere soltanto quelli di un’età. «Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quan­ti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957 …» È l’inizio, il prologo del ro­manzo, sei pagine in cui, in fin dei conti, nella contenuta foga della prosa di Bassani è già annunciato, simbolicamente – e persino pra­ticamente – tutto. Quella domenica d’aprile del 1957, nel corso d’una gita fuori Roma, il narratore è condotto in macchina da ami­ci tra le tombe etrusche di Tarquinia. Sulla macchina è una bam­bina, Giannina che all’idea di trovarsi tra gli antichi sepolcri so­spira una sua malinconia almeno un poco sospetta di convenzio­nalità puerile. «Nel libro di storia gli etruschi stanno in principio, vicino agli egizi e agli ebrei. Ma senti, papà : secondo te, erano più antichi gli etruschi o gli ebrei?», dice la bambina. L’interpellato scoppia a ridere. «Chiedilo a quel signore lì», dice, accennando al narratore. Giannina si volta. Con la bocca nascosta dall’orlo dello schienale, scocca una rapida occhiata, severa, diffidente. Il narra­tore aspetta che lei ripeta la domanda. Ma niente: la bambina torna subito a guardare davanti a sé. In un lampo, la materia do­lente del romanzo affiora. Bastano poche battute scambiate tra il padre e la bambina per farne diventare l’evidenza quasi insopportabile. «Papà», domanda ancora Giannina, «perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?’» L’altro ri­sponde «Si capisce. I morti da poco sono più vicini a noi, e ap­punto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti». Ma la bambina replica: «Però, adesso che dici così, mi fai pensare che anche gli etruschi sono vis­suti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri». L’in­sopportabilità dell’evidenza riapre la piaga della memoria, e l’arte si propone come una specie d’esorcismo, la tragedia, nell’incrociar- si di memoria e arte, diventerà favola. Il narratore ritorna a Ferra­ra, a un’altra tomba, «E mi stringeva come non mai il cuore al pen­siero che in quella tomba, istituita, sembrava, per garantire il ripo­so perpetuo del suo primo committente – di lui, e della sua discen­denza -, uno solo fra tutti i Finzi-Contini che avevo conosciuto ed amato io, l’avesse poi ottenuto, questo riposo. Infatti, non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ’42 di un linfogranuloma. Mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchis­sima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germa­nia nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi.» Così conclude il prologo accentrato tutto su una intermittence du coeur.

Giorgio Bassani e Proust

Bassani non maschera minimamente la natura proustiana di questo suo ritorno al passato. Anzi pare proprio calcarvi sopra la mano, insistervi come a togliere possibilità di dubbi e sospetti fu­turi. Non l’ha ripetuto sino alla nausea Proust che la memoria volontaria non ha alcun valore come strumento d’evocazione e ci fornisce un’immagine tanto lontana dal reale quanto il mito della nostra immaginazione o la caricatura fornitaci dalla percezione di­retta? Il narratore da molti anni desiderava scrivere dei Finzi- Contini ma è solo quella domenica dell’aprile del 1957 che il sovrapporsi delle pietose parole della bambina ai suoi pensieri, e della goffa immagine della tomba dei Finzi-Contini a quelle etrusche gli rende possibile l’avvio al recupero del passato. Questa citazione – possiamo proprio chiamarla così – proustiana tanto deliberata è la prima prova della sicurezza di Bassani, del controllo lucido, as­soluto dei suoi impulsi morali, delle sue possibilità formali. Infatti, l’znfermiìfewe du coeur fa parte della stessa descrizione dell’interno, della stessa identificazione, della stessa messa in evidenza del per­sonaggio del narratore, che sarà sempre tutto giocato sull’incrocio l’amalgama o la soluzione di due culture, una aperta verso ogni letteratura, l’altra addirittura regionalmente italiana. Il personag­gio è individuato in un suo farsi non sbrigativo, non sempre agevole abbastanza lento, tra impacci di vario genere, e questa formazione culturale è non meno materia del romanzo di quella sentimentale. Il prologo, essendo più vicino al lettore nel tempo dello stesso epi­logo, contiene come la gioia, almeno la disinvoltura di usare, anzi di vivere la intermittence du coeur per riannodare i legami con i sogni, le delusioni, gli anni perduti.
Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti. «L’uomo», diceva Proust, «è una creatura che non può uscire da se stessa, che conosce gli altri solamente in se stessa e che, se afferma il contrario, mente.» Cosa potrà conoscere il narratore della sua Micòl? La vedeva in sinagoga quando erano bambini – e- ducatamente ma fermamente come in un rovesciamento di pole­mica razziale la Ferrara di Bassani s’è andata sempre più restrin­gendo alle quattrocento persone della comunità ebraica : e, pro­prio tra le pagine migliori di questo nuovo libro vanno comprese quelle dedicate alla descrizione, all’individuazione, appunto, di questa comunità ebraica, in cui avviene la sintesi dell’universo nar­rativo — oppure in occasione degli scrutinii e degli esami a scuola. I ricchi Finzi-Contini erano portati a una esistenza esclusiva e come schifiltosa, a un superbo esilio nella loro magna domus al centro del loro immenso giardino: come avvicinare maggiormente Micòl, quando tutto tende, invece, ad allontanarla?

Il giardino dei Finzi-Contini e Micòl 

Micòl appare al nar­ratore come la Pisana o Gilberte nella folgorazione e lo sfondo d’una natura persino corruttrice. Affranto per essere stato riman­dato a ottobre in matematica il ragazzo non ha osato tornare a casa, erra a lungo in bicicletta sinché stremato dal caldo si butta a riposare sull’erba. Un richiamo cauto lo sveglia, si ripete, costrin­gendolo a levare il capo, a socchiudere gli occhi nel riverbero, ed ecco Micòl sporgersi dal muro di cinta del giardino dei Finzi-Contini. E il loro primo vero incontro, sono le vere parole che scambiano, lei un poco ironica, un poco sprezzante persino dall’alto non tanto del muro quanto della sua solitudine ebrea nei confronti di lui, l’ebreo quasi rientrato, assorbito nei ranghi degli altri, «Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Tuttavia, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini è ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla. Era poco più che una bambina, nel 1929, una tredicenne magra e bionda con grandi occhi chiari, magnetici. Io, un ragazzetto in calzoni corti, molto borghese e molto vanitoso, che un piccolo guaio scolastico bastava a gettare nella disperazione più infantile. Ci fissavamo entrambi. Al di sopra di lei, il cielo era azzurro e compatto, un caldo cielo già estivo, senza la minima nube. Niente avrebbe potuto mutarlo, e niente l’ha mutato, infatti, al­meno nella memoria. . .» Quando potranno avvicinarsi di più il narratore e Micòl? Dieci anni dopo, quando le leggi razziali, incer­ta, ancora goffa imitazione della pazzia tedesca entreranno in vi­gore anche da noi, i Finzi-Contini recederanno almeno parzialmen­te dalla loro solitudine: apriranno il giardino e persino la magna domus a qualcuno dei ragazzi ebrei che le recrudescenza d’antisemi­tismo ha privato d’una vita sociale. Tra questi ospiti è, naturalmente, il narratore e, tra tutti, è quello che resiste. Così, a un tratto, tra lui e Micòl i rapporti finiscono per complicarsi, anche se apparentemente non accade nulla o quasi. Un giorno in cui la pioggia li ha sorpresi mentre vagavano nel giardino sterminato, i due ragazzi entrano a ripararsi nella rimessa, e lì in un attimo senza muoversi, né parlare, senza forse neppure pensare, esperimentano la difficoltà, l’impossibilità di un amore tra loro. È Micòl a rendersene conto, il narratore no. Incredulo, la sente d’improv­viso ribellarsi a qualcosa di cui lui non è esattamente cosciente. «Sbuffò annoiata. “Non dire stupidaggini per favore! Mossa da un impulso imprevedibile si era scostata bruscamente da me, ran­nicchiandosi nel suo angolo. Ora guardava davanti a sé, corrugan­do le sopracciglia, i tratti del viso affilati da un’espressione di stra­no livore. Pareva improvvisamente invecchiata di dieci anni. . .» I loro rapporti non si riavranno più da questa crisi. Lui insisterà : oserà baciarla e perseguitarla con le sue profferte, sinché lei non sarà costretta a mettere tutto in chiaro un giorno o l’altro. «Domandai perché le sembrasse tanto impossibile. Per infinite ragioni – rispose la prima delle quali era che pensare di far l’amore con me le riusciva altrettanto imbarazzante che se avesse pensato di farlo con un fratello, toh, con Alberto. Era vero: da bambina, aveva avuto per me un piccolo striscio-, e chissà, forse era proprio questo che adesso la bloccava talmente nei miei riguardi. Io. . . io le stavo di fianco, capivo?, non già di fronte-, mentre l’amore – così almeno se l’immaginava lei – era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicen­da : uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis !, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi. . . Stupidamente onesti entrambi, uguali in tutto e per tutto come due gocce d’acqua («e gli uguali non si combattono, credi a me !»), avremmo mai po­tuto sopraffarci l’un l’altro, noi? Desiderare seriamente di sbra­narci? No, non era possibile. . .», eccetera. Per questioni di mimesi letteraria, sebbene le ragioni che adduce siano tutte diverse – in fondo, molto meno edificanti anche se non meno astratte, teoriche- nel suo commiato dal narratore Micòl rassomiglia d’improvviso so­prattutto all’Alissa gidiana de La porte étroite, ma ogni pagina, in Bassani è eco, riflesso letterario, una letteratura filtrata nel sangue. Così possiamo anche non cercare i riferimenti – sebbene siamo convinti che abbiano precisi motivi di essere e di porsi : la costru­zione sempre più complessa del personaggio che racconta la storia, il narratore che abbiamo già incontrato torpido, e pietoso, trascina­to a capire nonostante una certa ottusità in Gli occhiali d’oro, ma che somiglia molto, quasi di più al protagonista di un’altra storia ferrarese, Bruno Lattes di Gli ultimi anni di Clelia Trotti — e appagarci di Micòl astratta e carnale, insieme, nella sua sfuggente genti­lezza. Proprio come può risultare, più ancora che una incomprensibile – o magari banale – altra persona, un’inattingibile nostra età.
«Ti passerà», dice il padre al disperato narratore, «ti passerà: e molto più presto di quanto tu non creda. Certo, mi dispiace : im­magino quello che senti in questo momento. Però un pochino anche t’invidio, sai? Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quan­do uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risusci­tare. . . Capire da vecchi è brutto, molto più brutto. . .» E l’occa­sione in cui padre e figlio si riavvicinano : il figlio con la sua delu­sione amorosa, il padre con il suo fallimento di uomo che ha credu­to troppo agli altri uomini. Ma capire cosa? Cosa c’è da capire? Bassani ha messo come epigrafe al suo terribile racconto Una notte del ’43 una significativa citazione da Cechov – un altro degli autori che hanno contato molto per lui -. «Che devo dirvi, le visioni sono spaventose, ma anche la vita è spaventosa. Io, mio caro, non capi­sco la vita e ne ho paura». La vita continua e il dolore d’un’età di­venta una favola, Micòl spicca come un fiore grazioso sull’orlo di una catastrofe mondiale: «Il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga le vierge, le vivace et le bel ajourd’hui, e il pas­sato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato. E siccome queste, lo so, non erano che parole, le solite parole ingannevoli e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferire : di esse appunto e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore ha saputo ricordare. . .» – Oreste del Buono

Il testo di Oreste del Buono viene pubblicato nel 1962 sulla rivista Quaderni Milanesi ed è, oggi, anche in consultazione nella biblioteca della Casa Museo Spazio Tadini a Milano.

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Scrittura: Ernest Hemingway, di Oreste del Buono – Quaderni Milanesi 1962

Scrittura creativa

Scrittura creativa – Hemingway, di Oreste del Buono

Ernest Hemingway, di Oreste del Buono. La morte di Ernest Hemingway è già un fatto lontano, i necrologi frettolosamente encomiastici sono sbiaditi, restano al massimo i giudizi più negativi e drastici: di solito capita così, non vediamo come e perché la regola avrebbe dovuto essere infranta. Del resto, da tempo lo scrittore americano aveva cessato di intervenire realmente nel campo letterario: quattro o cinque suoi magistrali racconti il suo capolavoro Fiesta e il suo quasi capolavoro Un addio alle armi, bellissimi e irripetibili, sono ancorati a certe date, le altre pagine e pagine seguite a quella fioritura non sono state in grado di rinnovare il miracolo. L’ha scritto molto bene, anche se ferocemente e non opportunisticamente, Alberto Moravia sull’Espresso su­bito dopo l’episodio di cronaca nera del 2 luglio ’61 : perduta con la giovinezza gran parte della sua vitalità, Hemingway era sprofondato in un vuoto ogni giorno crescente. Nel buttar giù questa nota, noi non pensiamo a riprendere un discorso critico su Hemingway, non pensiamo a tentar di distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto nei suoi libri, vogliamo invece recuperare il senso, l’effettiva portata dei suoi rapporti con la nostra generazione.
La nostra generazione — ovvero la generazione di quelli che s’af­facciano ormai ai quarantanni – si è in buona parte formata in tempo fascista. Siamo nati dopo la pseudo-rivoluzione, abbiamo imparato a scuola che libro e moschetto facevano il fascista perfetto. Poco più tardi, (e già s’annunciavano le visite di leva e la seconda guerra mondiale), ci è stato detto che il libro non serviva più, bastava il moschetto, dopodiché siamo stati considerati tutti volontari e avviati alla grande avventura, alla prova della bontà del tante vol­te proclamato vivere pericolosamente mussoliniano. Alla fine della guerra siamo tornati a casa da varie esperienze con la convinzione d’aver capito una volta per tutte quali cose contino veramente a questo mondo e con un gran desiderio di rifarci dej tempo perduto in ogni campo : anche in campo culturale, noi che eravamo stati al­levati con i paraocchi, noi che dai nostri predecessori avevamo rice­vuto — salvo rarissime eccezioni – soltanto lezioni di malcostume, ipocrisia, convenzionalità, ignoranza. Se ripensiamo alle nostre il­lusioni di quei giorni, il primo dopoguerra, quasi non riusciamo più a credere di essere stati così abbandonati e goffi. Hemingway, appunto, ha costituito una delle nostre più grosse illusioni.
Di Hemingway avevamo sentito parlare appena un poco in tem­po fascista – era un nemico del regime sì o no? – pochi tra noi conoscevano qualcosa di più dei racconti tradotti e pubblicati in Ameri­cana, la celebre antologia di Vittorini: l’incontro fu folgorante, ci parve d’aver finalmente trovato l’autore per noi. Eravamo deside­rosi di staccarci dalle poesie e dalle critiche ermetiche dei nostri pre­decessori, volevamo infrangere a forza di chiarezza, magari di bru­talità la maledizione che ci pareva opporsi all’avvento d’una narrativa italiana. Possiamo confessare i nostri errori di allora perché non ce ne vergogniamo affatto, anzi, li consideriamo in un certo qual modo preziosi, la testimonianza della nostra buonafede (di­ciamo: della buonafede di gran parte di noi). Certo, di Heming­way ci colpì subito e soprattutto uno dei romanzi peggiori, quel Per chi suona la campana che venne sbandierato a puntate, faziosamente fagliate, dal Politecnico di Vittorini. Proprio con Per chi suona la campana Hemingway fornì una delle componenti fondamentali – più influente di quelle fornite da Rossellini o De Sica – del disordinato e discutibile movimento letterario che è stato chiamato, non sappiamo con quanta esattezza, neorealismo.
È chiaro che, quando parliamo di neorealismo in letteratura, ci riferiamo esclusivamente agli improvvisati narratori della nostra generazione, non già come molti critici confusionari hanno fatto nella loro smania d’appiccicare etichette dappertutto, agli scrittori cha hanno cominciato a pubblicare e ad affermarsi prima della guerra : il neorealismo in letteratura, con i suoi pressoché infiniti di­fetti e i suoi rari meriti, è stato un fenomeno giovanile. Cominciammo a scrivere le storie che avevamo vissuto – o credevamo di aver vissuto – nel modo che ci parve più lineare e immediato. Per chi suona la campana era lì ad additarci la via : cosa ci vedemmo esatta­mente (o meglio: inesattamente?). Non è semplice ricostruirlo og­gi, ma allora fu un fatto capitale della nostra vita, come il ritorno a casa, le sbronze, le cotte furiose, un fatto violento e stordente. «In ogni pagina di Hemingway,» ha scritto Vittorini nelle sue note per l’edizione sequestrata di Americana «noi troviamo accettato come un fatto già vecchio dell’uomo che le vie della purezza sono simili a quelle della corruzione, e che la purezza è feroce, e che ogni vellei­tà di ferocia è una velleità di purezza, e poi troviamo, implicito, un ideale stoico.» La ferocia di Per chi suona la campana fu la novità con­tenutistica che più ci colpì : non per nulla uscivamo da una guerra civile. La stilizzazione estrema fu la novità estetica che ci colpì in modo anche maggiore. Stabilimmo un’identità tra un dato tipo di realtà (meglio, tra una parte di realtà, una immagine scambiata per il tutto) e un dato modo di scrivere (che pur essendo, in defini­tiva, inimitabile pareva provocare all’imitazione).
Robert Jordan, a metà donchisciotte, a metà gangster, capita vo­lontariamente in una guerra senza esclusione di colpi, si schiera dalla parte giusta, senza per questo rinunciare a giudicare i suoi compagni di lotta e a formulare su molti di loro verdetti di condan­na, accetta un incarico disperato e nell’attesa di portarlo a termine coglie l’amore d’una bella ragazza, alla fine, ferito e disilluso, più che mai lucido, si dispone a vender cara la propria agonia contro il nemico. A riassumere la trama, ora, vengono i brividi : si tratta ve­ramente d’una trama per film con Gary Cooper e Ingrid Bergman, l’eroe delle avventure turistiche e l’eroina dell’equivoca purezza. Ma ora abbiamo a disposizione il senno di poi, il senno di poi che ci fa notare tutte le smagliature della prosa di questo romanzo, le rappezzature dell’astuzia, l’irrimediabile stucchevolezza, il fiato grosso del mestiere. Ma allora la tentazione di prendere Per chi suona la campana come il romanzo in sé e per sé, come lo schema definitivo, assoluto fu talmente forte, addirittura troppo forte. Non era stato detto che gli italiani erano negati a far romanzo? Noi avremmo di­mostrato che si trattava d’una mera illazione. Disponevamo di una esperienza da narrare e dello strumento per narrarla, perché il ro­manzo non avrebbe dovuto venir fuori? Per più d’uno di noi il pro­blema del romanzo diventò il modo più spettacolare ed efficace di far saltare un qualche ponte, il problema, insomma, di Robert Jor­dan, forse il più debole personaggio di Hemingway. Molti ponti saltarono nelle nostre pagine, tornarono a saltare, inesorabilmente ci stavamo avviando verso un’Arcadia. È a questo punto che qual­cuno preferì fermarsi, ritirarsi dalla competizione, qualche altro cambiò le carte in tavola per sopravvivere, e qualche altro ancora cercò di capire, a costo d’una fatica maggiore, cosa faceva, cosa vo­leva fare : fu a questo punto che per quasi tutti sopravvenne il di­stacco da Hemingway. C’era arrivato in ritardo, meteora che s’an­dava già raffreddando, aveva avuto comunque il potere d’infonder- ci entusiasmo e fiducia, il potere di confermarci che non era inconcepibile anche per gli italiani tentare il romanzo, ora invece, non era più in grado di fornirci la falsariga e l’alibi : il tempo delle esercita­zioni era terminato. Potevamo davvero essere sicuri che nel nostro interesse, nella nostra passione per Hemingway non entrasse un qualche residuo del vivere pericolosamente mussoliniano?
Questo sospetto di retorica minava la stessa tendenza a co­struire.
Per chi suona la campana è certo un’opera retorica : eppure le circo­stanze della nostra storia nazionale e la nostra età le hanno conferi­to un’importanza eccezionale. È stato il classico riconosciuto d’una generazione che non voleva riconoscere predecessori immediati né remoti, che dagli anni in cui s’era trovata a vivere aveva ricavato il senso di un ritmo rapidissimo, l’allenamento, quasi l’obbligo alla disinvoltura, una presuntuosa aspirazione ad avere radici soprat­tutto in sé. Staccarsi da Hemingway non fu facile per nessuno. Ma credo che a questo punto mi convenga passare dalla prima persona plurale a quella singolare, perché le varie vie dei miei coetanei si di­versificano molto. A staccarmi da Hemingway (da quel falso He­mingway troppo idolatrato) mi aiutò proprio Hemingway con uno dei suoi racconti che avevo letto in Americana prima della mia partenza per il servizio militare e che tornai d’improvviso a rilegge­re con la consapevolezza della grande irresistibile scoperta.
Ricordate il capolavoro II ritorno del soldato? Krebs torna a casa, nell’Oklahoma, dopo due anni di guerra: i festeggiamenti agli eroi sono finiti, per interessare il pubblico alle proprie vicissitudini militari occorre raccontare bugie, ma il reduce si stanca presto e si disgusta di mentire, gli pare di rovinare in tal mondo tutti i mo­menti ormai lontani in cui ha fatto con facilità e naturalezza quello che un uomo deve fare, mentre avrebbe potuto fare qualcos’altro. Krebs finisce per non parlar più della guerra e per non cominciare neppure a parlare della pace. Impigrisce a letto la mattina, non ha la minima curiosità d’uscire di casa, appare così lontano da qualsia­si problema riguardante il futuro che i familiari si preoccupano. Sua madre è costretta ad affrontarlo una mattina, per porgli do­mande dirette. «Hai deciso cosa vuoi fare?», domanda la madre. «No,» dice Krebs. «Non credi che sia ora?», insiste la madre. «Non ci ho mai pensato,» dice Krebs. «Dio assegna a ognuno il suo lavo­ro,» dice la madre, «Non ci possono essere mani inoperose nel Suo Regno.» «Io non sono nel Suo Regno,» dice Krebs. Questo raccon­to mi aiutò a capire quanto mi stava accadendo, mi aiutò veramen­te a capire me stesso.
«Non fare quella faccia,» dice la madre, «Sai che ti vogliamo bene e che per il tuo bene io ti dico come stanno le cose … Vo­gliamo che tu ti diverta. Ma devi sistemarti e metterti a lavorare. Poco importa a tuo padre cosa sceglierai per cominciare. Ogni lavoro è onorevole, dice lui. Ma devi cominciare a fare qualcosa . . .». «È tutto?», chiede Krebs. «Sì,» dice la madre, «Vuoi bene a tua madre?» «No,» dice Krebs. La madre scoppia a piangere. «Non voglio bene a nessuno,» dice Krebs e già si è reso conto di aver sba­gliato a parlare così alla madre, non può farglielo capire, può farle solo del male. Allora prende la madre tra le braccia. «Non volevo dir questo» dice Krebs, «Ero arrabbiato per qualcosa. Non volevo dire che non ti voglio bene.» Per placarla, le promette tutto, farà tutto quello che i familiari gli chiedono, sarà esemplare, non ha già ricominciato a dir menzogne? Ancora menzogne, il suo obolo alla società. La guerra semplifica, aiuta a scegliere: si sta da una parte o dall’altra, si ha l’impressione di poter essere dalla parte giu­sta, di poter aver ragione. Eppure la guerra vera non è quella, cla­morosa e sanguinosa, esterna, è quella intima, la guerra del sogget­to e dell’oggetto nel nostro microcosmo, il soggetto che percepisce, l’oggetto che è percepito nella prigione della nostra coscienza. An­ch’io stavo capitolando come Krebs, stavo per cominciare a dare il mio obolo alla società, ancora menzogne, passando dalla retorica della giovinezza alla convenzionalità della maturità. Proprio questo racconto di Hemingway, l’Hemingway più vero e dunque più di­sperato, m’aiutò a staccarmi dal falso Hemingway, m’aiutò a ten­tare un minimo di sincerità.
La durata del neorealismo vero e proprio è stata fissata con una certa larghezza tra il 1945 e il 1952. Ho detto che le vie del distacco si diversificano. Ma si usa dai più conferire alla politica l’intervento definitivo.
In verità, una spiegazione simile ci è sempre parsa e continua a parerci anche troppo semplicistica : il neorealismo scomparve non perché si verificò una crisi della realtà provocata dalla politica co­me Giuseppe Berto che, con II cielo è rosso fu uno dei personaggi del neorealismo, ha scritto in una nota, apparsa su Europa letteraria : «Il 1950 è l’anno in cui la guerra fredda diventa, in Corea, guerra guerreggiata e il mito della realtà del dopoguerra va a farsi benedi­re. In che cosa consisteva questo mito? Certo, vi era in noi un buon carico d’ingenuità, ma non è a dire che credessimo ad occhi chiusi nelle quattro libertà che gli alleati ci avevano generosamente stam­pate sulle amlire. Il difficile, il brutto, lo sporco, lo vedevamo fin troppo, ma se quella era la realtà – una realtà incontra^ dopo anni di menzogne letterarie e politiche – bene, da lì bisognava partire, con coraggio. Lo splendido periodo del dopoguerra fu animato dal­l’amore e dalla fiducia. Amore verso tutti gli uomini, fiducia nel rinnovamento sociale che sarebbe maturato con la buona volontà dei singoli e delle nazioni. Era forse un modo di giustificare i dolori e le morti della guerra, ma in noi c’erano amore e fiducia, e la cer­tezza d’essere noi i protagonisti della storia, perché il compito di noi scrittori in quel rinnovamento sociale era meraviglioso e sicuro : le nostre parole erano semi che cadevano sul terreno buono,avrebbero dato frutti. L’amore e la fiducia ci davano la possibilità di un con­tatto pieno con la realtà, senza pudori o vigliaccheria. La realtà era davanti a noi, e noi dovevamo sceglierne una parte, descriver­la, indagarla senza distorsioni, affinché gli uomini potessero ritro­varsi in essa, e progredire nel rinnovamento sociale. La crisi degli anni ’50 mise anche i più ottimisti di fronte al fatto che le parole di noi scrittori non andavano a finire sul terreno buono, ma su quello roccioso, dove gli uccelli, cioè coloro che esercitavano il me­stiere della politica, se le mangiavano. E noi, che credevamo di par­lare ai popoli, in verità eravamo uno specchietto per allodole, in mano ad abili cacciatori. E questo era ancora niente, perché la più stupefacente rivelazione della crisi fu che la realtà nella quale con­tinuavamo ad aver fede era la realtà di un momento di qualche anno prima, ma ora non c’era più, i politici, gli ecclesiastici, i mi­litari, i burocratici ce l’avevano cambiata sotto gli occhi, a poco a poco senza che noi ce ne accorgessimo, mentre noi continuavamo a portare amore e fiducia in una realtà che non era più realtà. Un bel colpo, dopo tante speranze. . .» La nascita e la morte del neo­realismo diventano così una favola, in cui al narratore neorealista è assegnata la parte della malcapitata vittima e al politico quella dell’uomo nero. Crediamo che l’interpretazione, la fiducia di Berto nella sua buona fede di allora sia eccessiva. Se l’adottassimo, avreb­be ragione chi, come Calvino, ci accusa -, noi di Quaderni milanesi —, di «moralismo del ’45» – «Sì, lo sappiamo tutti, che il ’45 è stato meraviglioso ma, insomma, siamo al ’62. . .», mi ha detto Calvino, e il colloquio è proprio dell’altro giorno. Il neorealismo scomparve non perché la realtà diventò improvvisamente difficile e complessa, ma perché, della realtà, aveva avvicinato solo una parte, il movi­mento superficiale, l’occasione. La realtà è sempre difficile e com­plessa, ma capita a volte per le circostanze e l’età, d’appagarsi momentaneamente di un’approssimazione parziale e volgare. Pri­ma o poi l’abbaglio svanisce, e allora si corre il rischio di trovarsi impreparati. Impreparati proprio nella coscienza. Senza coscienza che è lo svantaggio peggiore, il peccato originale per chiunque tenti la narrativa. Oreste del Buono

Il testo di Oreste del Buono è pubblicato nel 1962 sui Quaderni Milanesi ed è, oggi, anche in consultazione nella biblioteca della Casa Museo Spazio Tadini.

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Scrittura creativa: processo e tecniche

Scrittura creativa

Scrittura creativa

Scrittura creativa: processo e tecniche. Prendiamo in esame un brano di Nathalie Sarraute pubblicato nel 1962 sui Quaderni Milanesi (in consultazione nella biblioteca di Spazio Tadini) : “L’antiromanzo”. … Per quanto mi riguarda, occorre che vi dica subito di non aver mai pensato ad applicare teorie. Quando ho cominciato a scrivere nel 1933, mi preoccupavo solo di captare e comunicare certe sensazioni, certe impressioni che avevo provate, e mi pareva che impressioni simili non fossero state ancora messe alla luce ed espresse in maniera appropriata. Si trattava naturalmente di particolari molto limitati. Allora ero convinta soltanto che è meglio non scrivere nulla se non si ha da dire qualcosa che i nostri predecessori non hanno detto. Esistono grandi scrittori che compiono passi da gigante e scrittori che avanzano di qualche millimetro, pensavo allora, ma l’essenziale è non rimasticare una materia romanzesca già usata.

Scrittura e Tropismi

Così ho scritto quei testi brevi che ho chiamato Tropismi, in cui ho cercato di afferrare, nel loro ritmo, nel loro movimento, certi stati psicologici. Mi è molto difficile dire cosa siano esattamente i Tropismi : ma in quei poemetti in prosa ho tentato di dimostrarlo : sono movimenti pressoché incoscienti, che scivolano rapidamente ai limiti della coscienza e costituiscono il sottinteso delle parole, degli atti, dei sentimenti presi globalmente. Mi ricordo di aver letto nella corrispondenza di Flaubert che Flaubert si domandava cosa veramente significasse dichiarare di nutrir simpatia per qualcuno. Ebbene, decomponendo i movimenti che arrivano ad approdare a queste parole «nutro simpatia per qualcuno», mi pare si ritrovi quel che io cerco di fare, questi tropi­smi, questi movimenti estremamente rapidi che cerco di registrare come una macchina da presa e di proiettare al rallentatore davanti al lettore. Cerco di riprodurli con un certo ritmo. Quando ho scritto Tropismi ho creduto d’esser la sola a provarli per il momento. Di recente, m’è caduto l’occhio su certe ri­ghe di Dostojevskij che, se le avessi conosciute a quell’epoca, mi avrebbero molto confortata. Si trovano in un breve raccon­to intitolato Uno sporco affare. Dostojevskij scrive: «Si sa che ragionamenti interi passano a volte nelle nostre teste istantanea- mente sotto forma di sensazioni che non vengono tradotte in linguaggio umano e tanto meno in linguaggio letterario. È evidente che molte di queste sensazioni tradotte in linguaggio normale risulterebbero del tutto inverosimili. Ecco perché non appaiono mai alla luce eppure hanno luogo in ognuno di noi».
Quando scrivevo Tropismi pensavo che, essendo questi mo­vimenti la materia essenziale del libro, occorreva concentrare tutta l’attenzione del lettore e mia su di essi. Non la si poteva distrarre con personaggi o aneddoti. I movimenti dovevano essere isolati: i personaggi servivano solo da sostegno: il movimento bastava a se stesso, i tropismi venivano presentati isolati, autonomi. Non pensavo minimamente, a quell’epoca, che avrei potuto scrivere dei romanzi, poiché mi pareva che personaggi ben definiti e un vero e proprio intreccio avrebbero im­pedito di vedere quei movimenti che dovevano attirare esclusi­vamente la mia attenzione e quella del lettore. Poi, nel corso del mio lavoro, ho constatato che per andare avanti occorreva permettere a quei movimenti di svolgersi, e quindi seguirli su uno stesso personaggio, su due personaggi in contrasto continuo.
Quando ho scritto Ritratto d’ignoto, ho preso in considerazione una situazione molto vicina a quella studiata da Balzac in Eugénie Grandet. Presso a poco lo stesso soggetto : un vecchio padre avaro e la figlia, non più giovane, i loro rapporti. Ma, quando, alla sua epoca, descriveva un avaro, Balzac lo descriveva unicamente attraverso i suoi atti visti dall’esterno, i suoi atteggiamenti, il suo aspetto, le manifestazioni dei sentimenti più visibili. Credo che, se fosse vissuto alla nostra epoca, dopo tutto quel che è successo, dopo Freud, Joyce e Proust, Balzac probabilmente non avrebbe potuto descrivere un avaro come lo ha descritto. Ho cercato di rintracciare quei movimenti invisibili che compongono l’avarizia, quello che l’avaro sente in sé e che fa sì che lui stesso non si chiami mai avaro. Non voglio di­re, naturalmente, con questo che ho mai pensato di fare qualcosa di meglio, un’opera d’arte superiore a Eugénie Grandet. Balzac è stato un grande ingegno e, alla sua epoca, ha visto lon­tano quanto gli era possibile vedere ; ha lavorato su una materia che resisteva ai suoi sforzi ; ha forgiato uno strumento magnifico per catturarla, e, grazie alla resistenza che gli oppone­va la nuova materia, grazie allo strumento ammirevole che lui possedeva, ha potuto fare un’opera d’arte che resta viva ancor oggi e che contiene una verità immortale. Quel che volevo dire è che, se Balzac scrivesse romanzi ai nostri giorni non potrebbe vedere un avaro come lo vedeva alla sua epoca, data l’effettiva rivoluzione che s’è prodotta con Freud, Joyce e Proust, questa specie di disintegrazione della materia psicologica. Ma quella immagine dell’avaro, quella pittura classica, è così forte, così calata nelle menti che, quando ho cercato di dimostrare che non volevo rifare un avaro tradizionale, sono stata rimprovera­ta da qualche critico, specialmente uno americano, di rappresentare sempre la solita avarizia francese. L’immagine diventata un cliché è così forte, insomma, da interporsi tra quanto si cerca di dimostrare e quanto vede il lettore. Nel mio Ritratto d’ignoto il personaggio che tenta di afferrare i movimenti sottintesi a un certo punto è costretto a rinunciare alla sua impresa. Sono diventati troppo complessi, sempre più folti e rapidi e, alla fine, spunta fuori un personaggio che è il personaggio del romanzo tradizionale, vale a dire un personaggio monolitico, visto dal di fuori, che ha un carattere, una professione, un atteggiamento umano detto normale, eccetera. Al suo contatto tutto si congela, i movimenti s’arrestano, ognuno e ogni cosa torna a essere semplice, anodino, saputo, si rientra nell’univer­so delle apparenze, vale a dire nell’universo del romanzo tradizionale.

Scrittura – Ritratto d’ignoto

Nel mio libro successivo questo personaggio monolitico, visto dal di fuori, che è Martereau si disintegra a sua volta. In Ritratto d’ignoto si poteva credere alla sopravvivenza di personaggi come quelli dei vecchi romanzi. C’era Dumontet che non s’era lasciato disintegrare e aveva fermato i tropismi di di tutti gli altri, ma in Martereau, il protagonista, a contatto con gli altri, che son pieni di movimenti sottintesi, di questi tropi­smi, si disintegra a sua volta e diventa simile a loro. In Le Planetarium, questi movimenti agitano tutti, tutti i personaggi so­no agitati dai tropismi. Si muovono all’interno d’un universo artificiale, il planetario, che è un piccolo universo costruito da loro sulla loro misura, un universo di luoghi comuni, l’imita­zione di un universo vero che esista da qualche parte, fuori, e, a queste imitazioni di veri astri, si aggrappano, verso di esse si tendono, tra esse si sentono sicuri, al riparo, e anche, a volte, stretti.
Quando ho finito Ritratto d’ignoto in Francia regnava il behaviourismo del romanzo americano. C’era un movimento parti­colarmente violento contro quel che veniva chiamato con mol­to disprezzo, mettendolo tra virgolette «la psicologia». A quel­l’epoca Lo straniero di Camus era in gran voga ; si considerava una vera scoperta, che avesse dimostrato che non esiste coscien­za, che non esistono movimenti psicologici all’interno dell’uo­mo e si pensava che Kafka, il genio di Kafka, ci avesse rivelato anche lui questa verità. Allora scrissi il mio articolo Da Dostojevskij a Kafka per difendere la psicologia e per dimostrare che Kafka era stato un grande psicologo ed era nella linea di Dostojevskij e che tutto il suo universo metafisico aveva tanta forza proprio perché s’appoggiava su una psicologia estrema- mente esatta e nuova, di grande complessità. Ha rivelato un universo onirico come nessuno l’aveva mai fatto prima. Quel mio articolo non ha svegliato allora nessuna eco e più tardi, nel ’50 per chiarire meglio a me stessa quel che volevo fare, ho scritto L’era del sospetto in cui ho cercato di dimostrare che è diventato impossibile credere ai personaggi come li concepisce il romanzo tradizionale, dopo la rivoluzione di Freud, Joyce e Proust. Ho voluto dimostrare che occorreva liberarsi dei caratteri, non tener più conto di quei critici che continuavano a interessarsi a un romanzo nella misura in cui un romanziere sciorinava personaggi cosiddetti viventi, vale a dire personaggi ras­somiglianti a quelli che si vedono intorno a noi senza sforzo, personaggi che si ha l’impressione di conoscere perché li si giudica secondo i criteri d’una psicologia completamente desueta.

Scrittura creativa – applicarsi meno sull’aneddoto

Occorreva anche applicarsi meno sull’aneddoto che impedisce piuttosto di permettere di rivelare i movimenti sottintesi perché attira su di sé l’attenzione del lettore, distoglie la sua curiosità dall’essenziale e frena il progresso della ricerca. Poi nel ’54 ho scritto Conversazione e sotto-conversazione in cui ho voluto dimostrare che il dialogo romanzesco era l’approdo dei movimenti sottintesi, dei tropismi, che se questo dialogo non era preparato perdeva il suo vero significato. In Martereau sono quattro scene in cui un marito e una moglie si scambiano delle impressioni ; in ciascuna di queste scene si trovano nella stessa stanza, fanno gli stessi gesti e pronunciano le stesse parole, ma, poiché la sotto-conversazione che prepara queste parole non è la stessa, esse assumono in ogni scena un senso assolutamente diverso ; ma pareva allora, e mi pare oggi che il dialogo come ci vien presentato nei romanzi tradizionali in cui ci si limita a dire : un tale dice questo o quello, non abbia – comunque abbia pochissimo – significato. Poi ho scritto un altro articolo «Quel che vedono gli uccelli» sul realismo e il formalismo. Ma so­lo quando li ho pubblicati in volume,1) questi articoli hanno per la prima volta attirato l’attenzione dei critici, e special- mente di un giovane romanziere e teorico, Robbe-Grillet, che ha affermanto che le mie idee, particolarmente quelle sul ruo­lo dei personaggi e dell’intreccio esprimevano le preoccupazio­ni dei romanzieri d’oggi. M’ha risposto con un articolo sulla rivista Critique. Sebbene le sue teorie sul romanzo, siano su cer­ti punti diametralmente opposte alle mie, poiché Robbe-Gril­let mira a liberarsi della psicologia, ha pensato che per uscire dalla carreggiata, dal sistema del romanzo tradizionale cui e- ravamo condannati, occorreva creare insieme una specie di movimento. Così è nato il movimento dell’antiromanzo. Quan­to a me, resto ben radicata nel terreno che non ho mai abban­donato, il regno della psicologia che non è certo l’analisi psico­logica concettuale e tradizionale. Io mi sforzo di trovare un linguaggio poetico che penetri le apparenze e ricrei attraverso immagini e ritmo e trasmetta sensazioni, impressioni, movi­menti interiori rilevati dalla psicologia, ma da una psicologia rinnovata. –  Nathalie Sarraute

Testo raccolto da Oreste del Buono per Quaderni Milanesi, numero della primavera del 1962

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Giorgio Vasari il teatro e la scenografia

Giorgio Vasari

Giorgio Vasari il teatro e la scenografia

Giorgio Vasari il teatro e la scenografia. Un’altra fase del processo evolutivo della storia della scenografia si ebbe ad opera del Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574) e del gruppo di artisti operanti nella sua cerchia. I lavori teatrali del Vasari – come la incerta Talanta e la Cofanaria  – rivestono un particolare interesse giacché in essi, sull’eredità peruzziana, si innesta l’esigenza di risolvere lo spazio scenico in profondità sia attraverso una accentuazione dello sfondato illusionistico della scena sia concedendo agli attori una più vasta zona del declivio. Purtroppo, mentre l’attività di apparatore del Vasari, in gran parte svolta alla Corte dei Medici, è ampiamente suffragata da un cospicuo fondo di disegni, che lo mostrano incline all’abbondanza dell’ornato e al gusto manieristico, nulla resta della sua opera di scenografo, che pure fu ampia e certamente non priva di interesse. Comunque, dalla descrizione degli Intermezzi per la Cofanaria (1565), è possibile stabilire che egli destinò una parte del declivio, fino alla terza casa, all’azione recitativa, che in tal modo comincia ad essere inscritta nello spazio scenografico.
Intimamente connesso all’allestimento scenico, tanto da formare un unicum inestricabile, l’edificio teatrale si evolve parallelamente ad esso. In quegli anni, tanto queste costruzioni che la mise en scène, venivano concepite, quasi sempre dal medesimo artista, con visione unitaria, e la loro esistenza dipendeva dalla vita effimera della rappresentazione cui erano destinate. Ricordiamo, tra i tanti, il teatro costruito da Leon Battista Alberti in Vaticano (1452) per Nicola V, quello costruito agli inizi del secolo XVI a Ferrara su disegno dell’Ariosto, ed infine il teatro dovuto al Palladio ( Pa­dova, 1508 – Vicenza, 1580), nella Basilica di Vicenza per la Sofonisba del Trissino (1562). Un teatro con carattere di stabilità fu la sala lignea costruita a Venezia (1565), ancora dal Palladio, nel cortile del monastero adiacente alla Scuola della Carità.

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Sebastiano Serlio, Trattato di archi­tettura e scenotecnica del Cinquecento

Museo Teatrale alla Scala

Le Nozze degli Dei di A. Coppola, Firenze, 1637, di Stefano Della Bella – Milano, Museo Teatrale alla Scala

Sebastiano Serlio, Trattato di archi­tettura e scenotecnica del Cinquecento. La sua opera, Trattato di archi­tettura , una summa della scenotecnica cinquecente­sca , appare come una personalissima rimanipolazio­ne del testo vitruviano, effettuata nell’ambito della nuova problematica aperta dalla prospettiva e vagliata al lume dell’esperienza diretta.
Le tre scene teatrali codificate dal Serlio – Tragica, Comica, Satirica – sono chiaramente esemplate dai modelli vitruviani, ma la loro rielaborazione nonché la realizzazione tecnica le discostano sensibilmente dal modello classico. La differenza sostanziale, più che nel diverso stile architettonico – variante di carattere meramente formale – è individuabile nella cornice prospettica che raggruppa con visione organica ed unitaria un agglomerato di edifici realizzati costruttivamente, ultima propaggine dell’apparato medievale.
Queste scene non vanno intese come archetipi fissi ed immutabili, ma come dei semplici canovacci intorno ai quali l’estro personale poteva muoversi in assoluta li­bertà, modificandone e variandone all’infinito i temi, fino a raggiungere creazioni originali ed autonome.

Museo Teatrale alla Scala

Giulio Parigi, Aleppo città di Soria, scena base dal Solimano di Prospero Bonarelli. Firenze, 1619. Ine. di Jacques Callot. Milano, Museo Teatrale alla Scala

Di grande interesse, l’opera del Serlio, anche per le notizie sull’uso del colore nell’illuminazione e sulla scenotecnica. Nel trattato del Serlio, più che nelle ope­re di altri saggisti, Leone de Sommi (Mantova ?, 1525-ivi, 1592), Angelo Ingegneri (Venezia, 1550 – – ivi, dopo il 1613), si possono riscontrare i principi scenici che predisposero e governarono il teatro del Seicento. Con una vivissima sensibilità plastica, straordinariamente affine al gusto attuale, Sebastiano Serlio consigliava di realizzare le scene costruttivamente, con sporti ed aggetti il cui rilievo andava evidenziato mediante un accorto gioco di luci. Una raffinata ricerca materica lo spingeva a prediligere le ben note realizzazioni di Ge­rolamo Genga da lui citato quale esempio a proposito della scena satirica. “Che magnificenza era quella di veder tanti arbori et frutti, tante erbe et fiori diversi”, scrive Serlio, e dalla sua descrizione traspare la singolare modernità della scenotecnica cinquecentesca, “tutte cose fatte di finissime sete di variati colori, la rupe et i sassi copiosi di diverse conche marine lumache et altri animaletti, di tronchi, di coralli, di più colori, di madreperle et di granchi marini inserti ne’ sassi con tanta diversità di cose belle.”

Il palcoscenico concepito da Sebastiano Serlio è diviso in due parti essenziali: una piana anteriore, del tutto priva di elementi scenici, ed una posteriore, inclinata, sulla quale erano collocati nell’ordine stabilito gli edifici. Non è chiaro se la zona destinata alla recitazione comprendeva soltanto la parte piana – nel qual caso gli attori avrebbero recitato praticamente fuori del complesso scenico – oppure se si estendeva anche sul piano inclinato, e quindi con gli attori perfettamente inseriti nel contesto scenografico.

Libri da salvare per studiare a disposizione nell’archivio di Spazio Tadini di via Jommelli 24 a Milano – Scenografia dal Rinascimento all’età romantica, 1966, Collana Elite Fratelli Fabbri.

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Scenografi italiani: Gerola­mo Genga e Baldassarre Peruzzi

Giovanni Niccolò Servandoni

Giovanni Niccolò Servandoni, Città assediata. Disegno in seppia, acquarellato in sep­pia e verde. Vienna, Graphische Sammlung Albertina

Scenografi italiani: Gerola­mo Genga e Baldassarre Peruzzi. Al Genga (Urbino, 1476 -ivi, 1551), in prevalenza attivo alla Corte dei Della Rovere, va ascritta una nu­trita e qualificata produzione da scenografo. Tra le sue opere bisogna segnalare la rappresentazione, avvenuta nel teatrino adattato in una sala del Palazzo Ducale di Urbino (1513), con un allestimento raffigurante una scena fissa prospettica dipinta; la seconda, in ordine cronologico, di cui si abbia notizia sicura. Detto allestimento, va ricordato, altresì, quale esempio dello stretto legame che, in quel periodo, univa sala e scena: per la consueta raffigurazione della ‘città’, la sala, definita da due elementi scenici rappresentanti le mura di contenimento delle acque, era utilizzata come il ‘fossato’, mentre, sul fondo, nella scena vera e propria, “era finta una contrada ultima tra il muro della terra e l’ultime case”.
Al genere di scena illusiva dipinta, usata nei primi de­cenni del ’500, subentra una seconda fase, le cui caratteristiche si possono desumere dai disegni di Baldassarre Peruzzi (Siena, 1481 – Roma, 1536). Per quanto voglia essere considerata occasionale, la sua attività di scenografo e di apparatore esercitò un’influenza rilevantissima nello sviluppo della scenografia prospettica. Secondo il Va­sari, al Peruzzi si deve l’introduzione della scena prospettica realizzata tridimensionalmente che, soppiantan­do il fondale dipinto della scenotecnica precedente, utilizzava il palcoscenico in tutta la sua estensione, accentuando il senso realistico della finzione teatrale. Questo tipo di scena risulta ancora assente nell’allesti­mento del Penulo plautino (1513), curato da Baldassarre Peruzzi nel quadro delle feste organizzate per il conferimento del Patriziato Romano a Giuliano e Lorenzo de’ Me­dici. Molto probabilmente, il nuovo sistema appare per la prima volta l’anno successivo nelle scene per La Calandria del Cardinal Bibbiena, rappresentata in onore di Isabella d’Este Gonzaga, ospite di Roma, e fu ripe­tuto in un altro allestimento, la Bacchiate di Plauto (1531), rappresentata in occasione delle nozze Cesarini-Colonna.
La disposizione planimetrica della scena peruzziana, come mostrano i disegni, quasi tutti corredati da piante e misure, può essere indicata schematicamente in una triplice divisione del palcoscenico nel senso della profondità. Il primo ed il secondo di questi settori, corrispondenti rispettivamente al proscenio e all’inizio del declivio, raffiguravano una piazza, ed erano destinati all’azione degli attori; il terzo settore, raffigurante una strada in lontananza, serviva da sfondo alla scena. I ‘casamenti’, quattro per ciascun lato, erano formati da una coppia di ‘telari’, uno sistemato frontalmente o in ‘maestà’, l’altro di ‘sfuggita’, lungo le diagonali del­l’asse centrale che si restringevano verso il fondo. Questa ‘città ideale’ del Peruzzi, che servì da modello a gran parte delle composizioni scenografiche del Rina­scimento, sembra dettata da due diverse esigenze: la scena — inquadrandosi senza soluzione di continuità nella decorazione della sala — ottemperava, al tempo stesso, alla funzione di aderire ad un repertorio a suo modo realistico, creando intorno all’attore uno spazio reale che non contravvenisse ai principi aristotelici, e alla stilizzata ed astratta convenzione prospettica.
Per valutare appieno l’apporto del Peruzzi allo sviluppo della scenografia cinquecentesca, va considerata, inol­tre, l’opera del più importante trattatista del tempo, Sebastiano Serlio (Bologna, 1475 – Lioe, 1554), alla cui formazione artistica contribuì sensibilmente l’esem­pio del maestro senese.

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Libri da salvare per studiare dall’archivio di Spazio Tadini di via Jommelli 24 a Milano – Scenografia dal Rinascimento all’età romantica, 1966, Collana Elite Fratelli Fabbri.

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Teatro: prospettiva lineare e allestimento teatrale

Sebastiano Serlio

Sebastiano Serlio, Scena Tragica da Tutte l_Opere di Architettura, et Prospe­tta di S.S. Bolognese

Teatro: prospettiva lineare e allestimento teatrale. Come è noto, nel secolo XV, il ritrovamento della prospettiva lineare interessò le maggiori personalità artistiche del tempo, Ghiberti, Donatello, Masaccio, Pao­lo Uccello, Brunelleschi (che il Vasari addita come il primo teorico della nuova scienza ). Al Brunelleschi seguì Piero della Francesca e Leon Battista Alberti che ne sancirono le leggi fondamentali, alle quali si rifaranno indistintamente gli studiosi successivi, da Luca Pacioli a Leonardo da Vinci, dal Vignola a padre Poz­zo, ai Bibiena.
Largamente applicata ad ogni genere di arte, la prospettiva trovò un terreno particolarmente fertile nel­l’allestimento teatrale, dove attecchì e prosperò con eccezionale naturalezza sconvolgendo le antiche tradizioni ed imprimendo un aspetto inedito ad un’arte che pur vantava trascorsi plurisecolari.

Scena Comica

Sebastiano Serlio, Scena Comica da Tutte l’Opere di Architettura, et Prospe­tta di S.S. Bolognese. In Vinegia. MDC. Milano, Museo Teatrale alla Scala

Il suo innesto sulla scenografia teatrale, tuttavia, avvenne gradualmente, pronubo l’apparato festivo che tanta parte aveva nella vita di Corte dei principali centri italiani. La scenografia quattrocentesca, infatti, non nasce come componente dello spettacolo teatrale, ma come attributo della festa, con le caratteristiche sfarzose dell’addobbo, del quale serberà a lungo l’aspetto sedicente e pretestuoso. Ad essa fa ricorso, in termini generici e convenzionali, anche la rappresentazione teatrale vera e propria. Ciò valse a coinvolgerla nel processo evolutivo che impose alla rappresentazione stessa una fisionomia sempre meglio definita ed autonoma, per cui anche la scenografia, pur continuando a gravitare nell’orbita della festa, lentamente se ne distingue. Altro fattore condizionante della nuova concezione scenografica, fu il fermento umanistico che si ebbe verso la fine del XV secolo: la dilagante ventata classica investì anche la produzione teatrale, provocando una proliferazione di traduzioni e ristampe, e gli allestimenti da testi antichi si susseguirono con ritmo sempre crescente. Significativa, in tal senso, l’attività svolta a Roma da Pomponio Leto, il quale, nell’ambito di una società da lui fondata, si dedicò al rilancio di un autore, Plauto, che ben si addiceva al clima morale del tempo. Da tale gusto – particolarmente avvertito in centri come Roma, Mantova, Firenze, Ferrara – nasce il teatro accademico od erudito che, distinguendosi dal­l’uso ancor vivo delle Sacre Rappresentazioni, pur senza offrire prodotti originali, doveva svolgere una funzione decisiva per lo sviluppo del teatro moderno.
Alla commedia di imitazione classica, si affiancò ben presto una produzione autonoma. Al modello vitruviano si riallaccia la Pastorale, un nuovo genere di commedia sorta in contrapposizione alla Tragedia ed alla Commedia erudita, il cui atto di nascita potrebbe ricondursi alla Arcadia del Sannazzaro (1499). I segni di questa nuova corrente si manifestarono in vari cen­tri, ad Urbino, a Mantova e, principalmente, a Ferrara, dove, per la presenza del Boiardo, dell’Ariosto, del Tasso, vi furono esempi notevolissimi per originalità e novità di spunti. A Roma gli esempi più significativi si ebbero con La Calandria rappresentata in Castel San­t’Angelo (1514), scenografo Baldassarre Peruzzi, e nei Suppositi dell’Ariosto (1519), scenografo Raffaello, che per l’occasione eresse anche il teatro.
Nati in pieno clima classico, è evidente che, tanto gli allestimenti destinati alla riesumazione dei .testi antichi quanto quelli per le opere nuove, scritti senza stacchi violenti dai prototipi greco-romani, chiedessero all’in­ventiva degli artisti una composizione ispirata ai modelli classici, e, per essi, ai canoni vitruviani.

Appare quindi ovvio considerare il De Architectura, unico trattato di architettura tramandatoci dall’antichità e, forse a tal titolo considerato al di là dei suoi effettivi meriti, un indispensabile ausilio per l’esatta comprensione della scenografia cinquecentesca.

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Libri da salvare: Materiali per lo studio dall’archivio di Spazio Tadini di via Jommelli 24 a Milano – Scenografia dal Rinascimento all’età romantica, 1966, Collana Elite Fratelli Fabbri Editori.

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Architetti in Lombardia, di Giovanni Muzio, dalla rivista Dedalo, 1931

Gio Ponti

Gio Ponti, Emilio Lancia. Padiglione alla Fiera di Milano, 1927

Architetti in Lombardia, di Giovanni Muzio, dalla rivista Dedalo, 1931 – materiali di studio dalla biblioteca della Casa Museo Spazio Tadini. Trovare nella fervida ed intensa ripresa edilizia del dopoguerra in Italia caratteri architettonici definiti ed omogenei è difficilissimo; la fretta, l’eterogeneità degli autori, l’incertezza del gusto hanno generato dappertutto la più caotica confusione. Rari sono gli esempi, soprattutto di continuità, ed uno chiaro, benché limitato nel nu­mero delle fabbriche costruite, e purtroppo sommerso nell’immensa congerie delle altre costruzioni, è quello milanese. Singolari ne furono la origine ed i caratteri; non sorse al seguito di un maestro che ne stabilisse le regole, ma dall’opera risultata spontaneamente concorde di alcuni giovani architetti che, ultimati i loro studi allo scoppiare della guerra, soltanto dopo la lunga parentesi di questa iniziarono il proprio lavoro. La loro preparazione s’era dunque svolta nell’ambiente eclettico e vario anteriore al 1915, nel quale a Milano si andava spegnendo l’indirizzo di Camillo Boito volto al Medioevo, e le ricostruzioni in stile (imperava lo stile lombardo o il barocchetto) si alternavano al cosiddetto moderno ancora florealeggiante od esotico. La guerra aveva fortunatamente spezzato l’ordi­nario svolgimento di una carriera. La prolungata permanenza nel Veneto, il soggiornare nelle ville palladiane e in luoghi di viva architettura aveva in loro lasciato preziose esperienze, dei loro studi non potesse avere alcuna pratica realizzazione. Gli esempi più buoni ed originali del passato apparvero con sicurezza quelli di derivazione classica e particolarmente a Mila­no quelli del primo Ottocento; a esempio, la via Monte Napoleone, alcuni tratti del corso Vittorio Emanuele, la piazza Beigioioso, ora contaminati o minacciati da inutili sventramenti.

Fiera di Milano

Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati. Padiglione alla Fiera di Milano, 1931

Lo spirito civico era sorto a Milano, dopo i grandiosi progetti napoleonici, quando nella città, divenuta capitale del Regno d’Italia, si eressero moltissime case private, e con esse archi trionfali, porte monumentali, caserme ed ospedali, con nuovi criteri prospettici e di simmetria, di tale imponenza da dare a gran parte dei quartieri un nobile e severo carattere ottocentesco. Fu necessario per questi architetti, chiamati per antonomasia « gli urbanisti », riattaccarsi ad esempi così illustri, convinti della bontà fonda- mentale del metodo. Come per l’urbanistica anche per l’architettura s’impose un ritorno al classicismo, in modo analogo a quanto avveniva nelle arti plastiche e nella letteratura. Le fonti che si riconoscono in questo movimento architettonico sono pure: le epoche di massimo splendore e nelle quali fu più estesa la diffusione di omogenei caratteri estetici: dagli ultimi secoli dell’Impero romano al XVI secolo, al neoclassicismo. Questi grandi periodi del passato si vedono studiati non nei singoli monumenti e nei motivi sporadici, ma nei loro autori, nei testi dei teorici, e negli elementi immanenti ed eterni. Gelosamente fu ricercata e voluta l’assoluta ita­lianità, e talvolta forse si cadde nel regionalismo, ma mi sembra un merito grande l’essere sempre rimasti fedelissimi alla maggiore nostra tradizione viva e continua nei secoli. Ciò avvenne per gli eclettici, ai quali qualunque cosa era permessa pescando in tutti gli stili e in tutte le epoche. Potevano anzi da essa derivare monotonia e rigidità. Infatti fu rimproverata a questa architettura la freddezza; ma, in epoca di transizione come la presente, .credo che l’austerità ed anche la freddezza, quando siano il risultato di severa selezione di motivi e di ornamenti, riescano sa­lutari. Tutti i periodi di fiore dell’arte cominciarono con una certa timidezza castigata ed anche con stento, mentre invece gli svolazzi e le variazioni fantastiche e le bizzarrie ne accompagnarono sempre il tramonto. Forse fu piuttosto da lamentare, specialmente negl’imitatori, la ripe­tizione stucchevole di elementi secondari decorativi, timpani e timpanetti, obelischi, nicchiette, sfere, spesso usati a sproposito, merce di contrabbando sotto la bandiera del rinnovamento. Da tali basi teoriche che oggi si vedono più chiare di allora, quando nel fervore dell’entu­siasmo erano forse più intuite che esplicite, ciascuno trasse variamente il carattere delle proprie opere. Oggi, dopo dieci anni, è di qualche soddisfazione il vedere come questi architetti siano riusciti a tener fede ai loro propositi e come oramai non si possa più considerare questo movi­mento come uno sporadico tentativo, ma gli si debbano riconoscere un certo numero di opere di notevole valore. E se non sono ancora chia­ri gli sviluppi ulteriori che potrà avere, nè i nuovi caratteri che potrà assumere col mutare delle condizioni economiche e sociali, questo movimento architettonico segna già una profonda esperienza ed una base solida dalla quale può derivare l’architettura di domani. Se i caratteri stilistici sono diversi nei singoli artisti, fu in tut­ti comune un vivo desiderio di semplicità, di nudità; fu da tutti aborrito il facile ornamento riempitivo, la decorazione cementizia, la complicazione degli oggetti, delle cornici, delle sagome, e ricercata piuttosto la sincerità e la bontà del materiale. Non vollero che la casa fingesse il palazzo, nè la villa il castelletto. Oggi questi sembrano concetti quasi ovvi, ma le primissime fabbriche suscitarono in Milano reazioni violentissime. Questa volontaria modestia, o meglio il voler adeguare ogni edificio al suo scopo, urtò contro la borghese retorica del voler comparire magari col finto antico e il finto marmo. Qualsiasi bizzarria sarebbe stata permessa, ma non l’andar contro al mal costume del tempo. A poco a poco l’esempio si è però diffuso, troppo sovente con spuri caratteri; ma qualche cosa si è ottenuto anche se spesso i convertiti, nonostante le teorie di colonne e gli schemi classici, lascino sempre scorgere il vecchio eclettico gusto. E’ opportuno illustrare oggi complessivamente questo movimento di restaurazione classica, perché a mio giudizio esso è una netta reazione non soltanto al declinante eclettismo prebellico ma soprattutto alle mode straniere. Esso poteva venire scambiato per una strana anomalia, derivata da una sordità provincialesca mentre tutta Europa era in convulsione e ansiosa di estreme novità, oppure per una ripresa di facili e scolastiche regole. Invece si trattava di un movimento originale e di ben più profonde ragioni. Infatti, se riguardiamo la storia della recente architettura, vediamo come i movimenti architettonici europei più definiti, ad esempio quello olandese, derivino con rigida coerenza dalle premesse romantiche della metà del secolo scorso, dalle teorie di Ruskin e di Viollet- le-Duc, dai sofismi già allora diffusi, che cioè dall’impiego di nuovi materiali (allora il ferro, la ghisa, il vetro) dovesse sorgere d’improvviso una nuovissima arte; e i nuovi monumenti erano i Palazzi di Cristallo, la Galleria delle macchine, la torre Eiffel. Abolito ogni legame col passato, che in tutta Europa significava da secoli influenza soprattutto italiana, sì aprivano le porte a tutti gli esotismi e alle stramberie. Una perfezionata tecnica e organizzazione sociale, che portò in ottant’anni di sforzi continui a pregevoli risultati nella costruzione delle case, non riusciva invece a forme persuasive e stabili nell’architettura propriamente detta. Da noi si partì contemporaneamente con le stesse premesse. Però soltanto in alta Italia tali teorie si diffusero ed ebbero attuazione. Dapprima il medievalismo strutturale fu opposto alla così detta retorica classica; poi sorse il floreale; poi l’esotismo ibrido di forme indiane ed orientali, accompagnate tuttavia ad uno stanco e spurio classico detto greco-romano perchè vi potesse star dentro comodamente ogni cosa. Ma, nonostante i vivi entusiasmi e una farragine di costruzioni, le successive fasi di queste varie tendenze, i cui araldi usavano gli stessi argomenti e, direi, le stesse parole dei presentì fautori di novità ad ogni costo, ebbero una durata effimera. A Milano le esperienze furono più vistose che altrove e non fu lasciata intentata nessuna audacia. Ma appunto per ciò il ciclo fu anche più rapido, e proprio qui poté sorgere dopo la guerra, per opera di questi architetti, quasi tutti esperti tecnici, usciti dalla scuola di ingegneria, da una revisione di tutto il passato, questo nuovo spirito classico.

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Fiera di Milano: Architettura e urbanistica

Fiera di Milano

Fiera di Milano, Padiglione delle Industrie Alimentari, 1928, Giuseppe De Finetti

La Fiera di Milano nacque, sui bastioni, in capannine di legno, smontabili. Poi si comprò un terreno e si fabbricò case stabili. Ma erano ancora dei baracconi, arlecchineschi. Tutto il folclore fu messo a servizio. I padiglioni in stile regionale e quelli di stile composito non sono, purtroppo, ancora smontati: e ogni anno son lì, ironico promemoria. Ma poi si cominciò a costruire anche sul serio. Si pensarono padiglioni che, invece d’essere essi una mostra permanente, dovevano soprattutto servire agli scopi diversi delle mostre temporanee. A questo punto si può dire che la Fiera di Milano abbia preso un significato eccezionale, nella vita dell’architettura milanese. Non si risale, con essa, certo, a date di una vetusta nobiltà: ma quando nel ’27 Larco e Rava alla Fiera vi costruirono il Padiglione delle Colonie, e poi vennero nascendo gli edifici di Lancia e Gio Ponti, di Faludi, di De Finetti, d’Alpago Novello e di Cadiati, e i padiglioni di Germania e Cecoslovac­chia e U.R.R.S., in Milano-città non c’era ancora neppure una casa razionalista nè un negozio 900.

Fiera di Milano

Fiera di Milano, 1926-27, Gio Ponti, Emilio Lancia. Padiglione delle Arti Grafiche

Fu la Fiera che, sciolta da preoccupazioni di solennità monumentali e di rispetti ambientali e di ubbidienze tradizionali, segnò subito il passo; e servì, almeno un poco, a far mutar strada. In sede di fiera era tutto permesso: anche la libertà dell’architettura. Certo, quando si guarda il campo della Fiera, come lo esaminò l’architetto Pagano, nel suo piano regolatore; o si misura quel che è stato fatto con quanto avrebbe potuto, o forse dovuto, esser fatto; non si può più scrivere l’apologia della Fiera. Senza un orientamento critico, senza una pianta coerente, senza una responsabilità direttiva, questa Fiera s’è venuta facendo da sé, disorganica, discontinua. E’ non ostante le sue più apparenti liberazioni, il prodotto normale di un clima di mal gusto e d’impreparazione architettonica e urbanistica. Tuttavia, non ci par giusto notare soltanto i guai, e se quest’anno ancora il gusto più vivo ha avuto qualche suo diretto o indiretto trionfo, dalle costruzioni di Portaluppi e Albini a quelle di Faravelli e Lancia; se dal ’27 a oggi, padiglioni come quelli dell’lrpinia di Greppi hanno ormai svoltato nettamente dal pasticcetto folcloristico a un ripensamento unitario, e grandi padiglioni nitidi e intelligenti come quello degli Alimentari di De Finetti si sono aggiunti ai primi; evidentemente si deve cercar qui ormai un piano di sperimentazioni utili e, diremmo addirittura, di esemplificazioni necessarie. Sembrerebbe utile ormai che la Fiera di Milano giungesse, non certo a una sua architettura ufficiale ma almeno a un suo controllo responsabile: e che giungesse anzi a una decisa revisione del suo aspetto topografico ed edilizio. Se non altro, questo gioverebbe a contenere la volgare prepotenza degli espositori privati che soprattutto nella sezione degli Alimentari usano perdere ogni linea di stile, diciamo di decenza. Troppi di questi padiglioni noi siamo costretti oggi a riprodurre dalle fotografie del primo anno o addirittura dai disegni degli architetti, tanto sono stati massacrati, dal padiglione di Lancia e Ponti a quelli di Larco e Rava e di Alpago e Cabiati. I quindici giorni di fiera sono come una furia. E che tutto invece entri dentro una disciplina e una coscienza dell’architettura, sarà utile, crediamo, anche al gusto della mostra. Anche in questo senso il padiglione della Germania, che è la più bella architettura della Fiera e una delle più belle architetture di Milano, può servire d’esempio.

RAFFAELLO GIOLLI- COLOSSEO, APRILE 1934

Fiera di Milano: Architettura e urbanistica

Dal n° 81 della rivista di architettura Edilizia Moderna.

Archivio Francesco Tadini

storia dell’arte e dell’architettura contemporanea

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Architettura tra metafisica e storia

Galleria Vittorio Emanuele a Milano

Giuseppe Mengoni, Galleria Vittorio Emanuele a Milano, 1867-77

Architettura tra metafisica e storia – Mentre da un lato la necessità di risolvere architettonicamente le nuove tipologie (come ad esempio la struttura condominiale) operava una serie di dilatazioni all’interno della sintassi fatta di elementi classici, dall’altro era la stessa situazione di connessioni urbane a mettere in crisi la volumetria tradizionale dell’edificio, il suo rapporto con la rete viaria. La casa di via Moscova di Giovanni Muzio (1923) senza una vera “fronte” ed un vero “retro”, costruita secondo una serie di frammenti colati l’uno nell’altro, con una volumetria chiusa, continua, di austera essenzialità è considerata dagli storici il momento più preciso della tematica del primo Novecento in architettura. Qui sono riassunti i temi principali dibattuti nei dieci anni precedenti. La volontà di formare una moderata avanguardia, rispettosa della libertà dell’artista e connessa ai problemi del ritrovamento di un linguaggio edilizio comune, di fronte ai problemi quantitativi dell’edilizia moderna, che viene identificato (come già in qualche modo nel caso degli architetti inglesi Adam alla fine del ’700) con la grammatica classica secondo quel tipico falso dilemma passato-futuro, doveva fatalmente risolversi per il passato, perché ragione e tradizione erano in quel momento invocate da tutta la cultura italiana. Ma era l’esperienza della pittura metafisica italiana a immettere gli elementi dissolutori, ed in questo senso positivi, in quella stessa grammatica che si componeva, a livello sintattico, secondo nuove magiche connessioni. Colonne, archi, timpani ridotti alle loro forme geometriche pure (sfere, cilindri, ecc.) o piegati ad invenzioni decorative, sono connessi tra loro da una diversa logica appunto “metafisica”, che mette ironicamente in gioco la loro stessa consistenza, proprio attraverso il reciproco incontro, trasformandoli in simboli richiamati da memorie lontane a fissare tutta l’assurdità del reale.

Dal n° 81 della rivista di architettura Edilizia Moderna.

Archivio Francesco Tadini

storia dell’arte e dell’architettura contemporanea

Architettura moderna

Architettura moderna – Alessandro Antonelli. Casa delle colonne a Torino, 1854.

 

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Architetture e costruzioni, di Margherita Sarfatti, 1925 – da Edilizia Moderna

Gio Ponti

Gio Ponti, Progetto di chiesa alla I Biennale romana, 1921

Architetture e costruzioni, di Margherita Sarfatti, 1925 – da Edilizia Moderna. Ma perchè, fra i tanti problemi di tutte le arti, non si parla mai in Italia dei problemi di architettura? A Milano, come nelle altre grandi città, ogni anno, a novembre, si fa la rassegna delle più mediocri statue del Cimitero Monumentale e di Musocco; si dedicano colonne di cronaca alle più modeste esposizioni di carte acquarellate o disegnate. E chi si è occupato o si occupa seriamente dell’edilizia della strada, che tanto posto tiene nella vita d’oggi? E per cominciare, bisognerebbe forse chiedere se esiste un’architettu­ra in Italia oggi; in Italia, dove sorsero città, le più belle del mondo, e ancora mostrano, malgrado tutto, le tracce dell’antica armonia? Se andiamo nei quartieri nuovi di queste stesse vecchie città, appare lecito dubitarne. Appare confuso e smarrito persino il senso che i nostri vecchi avevano, i più umili, i muratori, i manovali, della costruzione, come opera, innanzitutto, di ordine e di solidità. Oggi, non si sa più, nella maggior parte dei casi, nemmanco disporre le finestre.

Cimitero Monumentale

Mario Palanti, Mausoleo Palanti al Cimitero Monumentale di Milano, 1930

La simmetria, che non è ancora l’armonia, ma ne è pure un primo elemento, la simmetria è ripudiata, non per considerazioni e scopi di superiore armonia ma come contraria alla scapestrataggine del « genere artistico » che fu la più ridicola tra le camuffature filistee. Una borghesia dell’arte non abbastanza solida e proba per vantarsi d’essere borghese, non abbastanza elevata per giungere ad essere interamente artista inventò il romanticismo delle cravatte, dei cappelli, e dei capelli, tutto a svolazzi. E svolazzi pure, non linee, adornamenti; niente di statico, non forme costruttive, ma di capriccio fu l’arte « liberty » il cosiddetto « stii nuovo » quale appare nel continente. In Inghilterra no, la sua patria fu più seria e si contenne con mag­giore sobrietà pratica e maggior fedeltà allo stile settecentesco — lo stile della Regina Anna — che l’aveva originato. Giornali e riviste dovreb­bero pur additare gli errori delle costruzioni nuo­ve, perchè si cercasse di evitarli in futuro; do­vrebbero additare al pubblico gli architetti giovani d’oggi, i quali si sforzano di evitarli. Si è grida­to, per esempio, contro la Ca’ Brutta di Via Prin­cipe Umberto, che in certe parti realmente mostra una pletora di particolari inutili e in generale rap­presenta una raffazzonatura di principi stilistici disparati e stridenti. Ma certi altri lati del discus­so edificio sono bellissimi; così la base sino a metà altezza e il grande porticato cavalcavia ad arco e a terrazzo: italiano di pretta tradizione. Per tacere d’altri, vi è fra noi, a Milano, l’archi­tetto Arata, architetto, non abborracciatore di speculazioni bottegaie, vi è un giovane, Mario Chiattone, che lavora con probità di cultura e di intenti. Qualche cosa di buono si fa a Firenze; a Venezia Brenno del Giudice pensa e studia e si ispira con modernità d’animo agli antichi. E poi vi è Roma. Il figlio del vecchio ingegnere Piacentini, a cui Roma deve molte costruzioni pubbliche, Marcello Piacentini jr, è uno degli architetti più in voga, oggi, a Roma.
E’ sua la invenzione di una cupola mobile per teatro e cinematografo, che applicò a Firenze e, nel cinema di San Lorenzo in Lucina, alla capitale. E’ uomo di gusti moderni e di sottili elegan­ze. Ha decorato con accorta grazia, piacevole e un poco esotica, la Sartoria Montorsi, sta riattando a piccolo albergo di gran lusso il mirabile palazzo degli Aldobrandini, presso la Banca d’Italia, sulla Salita Magnanapoli. Di fronte al macchinoso ge­lato di fragola e panna che è il nuovo Palazzo del Parlamento, lo stesso Piacentini sta innalzando il nuovo Palazzo della Banca d’Italia con uno stile semplice — assai più consono al glorioso stile romano, a quella grave e posata architettura di travertino che imbiondisce al sole. E’ merito in parte anche del travertino con la sua colorazione ricca e sobria, se Roma—la vecchia Roma — somiglia più che ad una costruzione ad una crea­zione organica della natura; qualcosa di simile ad un miracoloso scoscendimento di tufo scol­pito. Pure a Roma, l’architetto Alberto Calza Bini, nelle case della Cooperativa « Leonardo », per esempio, seppe risolvere il difficile problema del caseggiato vasto e piano, con felicità di moven­ze, che gli evitano il carattere di caserma. E così hanno fatto, ancora a Milano, gli architetti del cosiddetto « grattacielo », la casa di 12 pia­ni in fondo al Corso Vercelli.
Ma perché il Calza Bini ha aggiunto stentate e misere decorazioni di graffito e pittura alla sua bella linea costruttiva; perché gli architetti hanno voluto abbellire il grattacielo con un motivo falsamente ornamentale di mensole arrovesciate, che inverte l’architettura dell’edificio, con una specie di pancia portata su due gambette? L’architettura è innanzitutto prima che decora­zione, linea di autorità logica e di evidente convinzione statica. Queste linee maestre regolano l’armonia estetica.

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Marcello Piacentini: concorso per il piano regolatore di Milano, 1927

Piero Portaluppi

Piero Portaluppi, Nuovo Piano Regolatore nel quartiere Monte Amarillo, 1920

Marcello Piacentini: testo sul concorso per il piano regolatore di Milano, 1927 – dal n° 81 della rivista di architettura Edilizia Moderna. Le discussioni furono lunghe ed animate. Alcuni membri della giuria tendevano a dare la loro preferenza ai progetti basati su radicali trasformazioni della Città, altri propendevano invece per quelli basati sulla conservazione dei quadri storici e artistici, pur conciliando queste esigenze con quelle dei servizi tecnici. … I tre premi furono quindi attribuiti così: il primo pre­mio al progetto « Ciò per amor » (arch. P. Portaluppi e ing. M. Semenza); il secondo al proget­to « Forma urbis mediolani » (arch. A. Alpago No­vello, G. De Finetti, G. Muzio, T. Buzzi, O. Ca­blati, F. Ferrazza, E. Lancia, M. Marelli, G. Pon­ti, A. Gadola, A. Minali, P. Palumbo, F. Reggiori) e il terzo al progetto « Nihil sine studio » (Ing. C. Chiodi, Arch. G. Merlo e Ing. G. Brazzola).

Inoltre la giuria indicò come ottimi e buo­ni, sotto aspetti parziali, numerosi altri progetti, fra i quali citeremo i seguenti: « El noster Dom » (Ing. E. Steffini e Arch. M. Stroppa) «Alberto da Giussano » (Ing. P. Aschieri, Arch. A. Limon­gelli, F. Nori, G. Venturi, P. Lombardi, Ing. V. Ciampoli) « Cura Viarum » (Ing. E. Annoni, Arch. E. Tarantini) « S.A.8 » (Arch. G. Greppi) « X.Y.Z » (Ing. A. Bordoni, Ardì. L. M. Caneva, A. Car­minati) «Breviter» (Ing. E. Mazzocchi). …Il progetto Portaluppi-Semenza apre dunque nella vecchia compagine di Milano una rete di grandi arterie nuove, poco o nulla seguendo o adattandosi alle esistenti: nè si contenta di questo, ma tra le varie maglie di questa rete vengono previste una infinità di altre arterie larghe, rettilinee e regolari, che sono quasi sempre inutili, e distruggono totalmente la Città esistente. Ne è conseguenza un dedalo intricato di strade, (con una somma di superficie enorme, pari, se non superiore, a quella alienabile) senza una ben determinata gerarchia, con residui irregolari a volte piccolissimi e con difficile orientamento: strade che si intersecano tra loro in un numero grandissimo di incroci e di stelle. … Così, vengono dedotti, partendo sempre dal principio astratto di poter fare pressoché « tabula rasa » dell’attuale fisionomia della città, i dati numerici riferentisi alle ampiezze stradali più idonee ad ottenere un fruttuoso sfruttamento del suolo (m. 30 per le arterie stradali principali) in rapporto alle più opportune e redditizie altezze dei fabbricati prospicienti (maximum di m. 40; m. 28 di media), le percentuali delle aree occupate dalle strade in rapporto alle aree fabbricabili ecc.

piano regolatore di Milano

Concorso per il piano regolatore di Milano, il piazzale della nuova stazione 1927

… Dal punto di vista architettonico il progetto valorizza i più importanti centri artistici della città attuale, qualche volta però sacrificando troppo l’ambiente, senza considerare che i monumenti di Milano non hanno sufficiente importanza per star soli e spaesati. … I quartieri suburbani sono ben disposti e collegati, ma si osserva in essi un eccessivo carattere simmetrico, spesso addirittura monumentale, ne’ si pensa possa adottarsi il sistema di grandi zone a costruzione intensiva alternate con altrettanti enormi zone a villini. Il progetto « Forma Urbis Mediolani » del gruppo degli urbanisti milanesi, è studiato con infinito amore, e con grande conoscenza e rispetto per la città. Si basa sul criterio generale dello sdoppiamento delle arterie: le nuove parallele alle esistenti. Non ingrandisce le vecchie: sistema troppo costoso, lungo e non pratico. Il traffico non è portato al centro. Questo è racchiuso da un anello dal quale partono le radiali, che congiungono i vari quartieri della Città senza attraversare il Centro. … Buone sono state trovate le vie trasversali, e le tangenziali. …Anche la conservazione dei punti più interessanti del Naviglio, specialmente lungo la fronte posteriore dell’Ospedale Maggiore e a S. Marco, è degna di essere approvata. … La zonizzazione esterna, al di là dei nucleo propriamente urbano nettamente delimitato è a settori separati tra loro da giardini a zone agricole alternativamente e industriali, di abitazioni operaie, presso i sobborghi esistenti e di abitazioni signorili. I nuclei satelliti sono creati ex novo con apposite vie di comunicazione a sufficiente distanza dal nucleo urbano. … Dal punto di vista architettonico, gli edifici sono immaginati con quel sano e fervido buon gusto e senso di modernità pur legato alle tradizioni, che tutti riconosciamo da tempo al gruppo degli urbanisti milanesi. La speciale maniera neoclassica, che caratterizza questo gruppo di artisti è facilmente identificabile. Ottime in generale le sistemazioni parziali degli ambienti vecchi e di carattere. Sotto il punto di vista del rispetto al carattere della Città il progetto « For­ma Urbis Mediolani » è anzi da giudicarsi il migliore. … Il progetto nel suo complesso è assai equilibrato e rispondente alle possibilità, … Il progetto « Alberto da Giussano » è studiato sommariamente nella parte tecnica ed edilizia. … Benché frammentario e parziale dal lato tecnico, tuttavia dal punto di vista architettonico, questo progetto è svolto con quella originale e feconda ispirazione che tutti riconoscono nei suoi autori, noti artisti romani. Nelle prospettive, ricche di anima e disegnate con gran calore, è anzi troppo presente la romanità, almeno in relazione all’ambiente settentrionale: benché tale carattere risulti in molte tavole vivificato e reso attuale da un sapiente innesto delle sontuose forme decorative dell’Urbe coi nudi volumi architettonici moderni, con le rigorose delimitazioni dei rapporti tra gli spazi, e con i geometrici ed uniformi accordi tra pieni e vuoti che l’edilizia moderna esige.

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Edilizia Moderna: città come organismo estetico, di Ugo Ojetti – dalla rivista di architettura

Antonio Sant'Elia

Antonio Sant’Elia, progetto per una stazione, 1913

Edilizia Moderna: città come organismo estetico, di Ugo Ojetti – dal numero 81 della rivista di architettura. Ora se v’è un’arte che ha da essere proprio nazionale, anzi regionale, anzi adatta alla postura e all’indole d’ogni singola città, è proprio questa del tracciare nuovi piani e nuove strade obbedendo alle necessità del clima, del suolo, dell’acqua, della veduta, del traffico; e a fare i cosmopoliti come oggi è di moda più nelle parole, per fortuna, che nelle opere, si può inciampare a ogni voltata. Il Giovannoni parla chiaro: « Per l’accordo con lo stile cittadino, la difficoltà maggiore consiste nel pregiudizio dell’antilocalismo, se non addirittura nell’internazionalismo che è portato dall’adeguarsi delle abitudini di vita, dalla rapida trasmissione dei concetti architettonici, dalla facilità dei trasporti che consente l’uso di materiali di altre regioni, dai procedimenti costruttivi nuovi che hanno moduli costanti. Molte di queste condizioni sono essenziali e inevitabili; ma molte altre sono il portato di sciocche esagerazioni da provinciali, di cui converrà pian piano fare giustizia ». E in questi anni abbiamo tentato di farlo con parole adeguate. Dei tanti elementi, infatti, d’utilità, di comodità, di pensiero che contribuiscono a definire il tracciato d’una città, le teorie preconcette sono sempre state le più pericolose Gli equivoci degli igienisti sono stati in questo campo più gravi di quelli degli artisti. Non dovevano i grandi falansteri dei casamenti popolari salvare finalmente la salute e la morale del popolo?

Marcello Piacentini

Marcello Piacentini, progetto per il concorso del nuovo centro di Bergamo, 1907

La verità è che bastò nei vecchi quartieri portare con l’acqua pura, con le fogne, coi regolamenti d’igiene la difesa continua con­tro le infezioni, per risanarli senza demolirli, ed essi risultarono più favorevoli dei nuovi casamenti costruiti con tanta spesa e con tanto fragore di promesse
Col mutare delle mode nelle leggi di profilassi e più col mutare e accelerarsi delle comunicazioni, (un tanto rapido mutare che non è da escludersi si possa un giorno andare a vivere tutti abbastanza lontano dalla città ridotta a centro d’affari, di riunioni e di commercio) il costruire e demolire è diventato così frequente che vi sono in America quartieri rifabbricati due e tre volte durante la vita di un uomo. Di questo sperpero s’è addirittura fatta una teoria, e la casa, considerata solo come una macchina di temporaneo e comodo ricovero, è per questi straricchi teorici da mutare spesso, come avviene per le macchine vecchie appena s’inventi una macchina nuova. Si rilegga, chi ha tempo, in Plutarco ciò che Augusto disse a Pisone quando andò a visitare la nuova casa di lui: «Tu mi consoli, o Pisone, poiché fabbrichi con l’intendimento che Roma debba essere eterna ».
Ma i capricciosi amanti delle novità affermano che sia da fascisti e da italiani il criterio ­posto, quello della caducità fin delle case. Sul­l’avvenire delle città come organismo sociale, sul costo delle case operaie e delle città giardino, sul presente e sull’avvenire della circolazione urbana, sulle orme per agevolarla e regolarla, sul modo di preparare i nuovi piani regolatori, Gustavo Giovannoni ha scritto capitoli d’una dottrina e d’una esperienza che, se questo libro sarà tradotto in altre lingue, faranno testo anche oltre confine. Ma a noi oggi importa quello che il Giovannoni scrive della « città come organismo estetico ». La  concezione puramente meccanica e materialistica nell’arte del costruire, voglio dire la teo­ria per la quale basta costruire bene un edifi­cio e mettere in mostra gli elementi di cui è costituito per avere una bella architettura, egli la rifiuta anche nella creazione delle città e dei nuovi quartieri. Puro tecnico, pessimo tecnico. Pel rinnovamento delle città italiane il Giovannoni fissa due principi sui quali ormai sono d’accordo gli urbanisti più autorevoli. Il primo è che, a trasformare oggi il vecchio centro delle nostre città in un centro di movimento e d’affari, si commette un errore insanabile da cui derivano i mali più lontani e inaspettati, co­me di chi affanni un vecchio cuore con fatiche e passioni nuove. Bisogna invece pei nuovi bisogni creare risolutamente nuovi quartieri, distribuendo in zone diverse quello degli affari, quello delle industrie e quello delle abitazioni. La difesa, insomma, delle vecchie città destinate a progredire, è alla periferia. Il secondo principio è l’accorto diradamento dei vecchi rioni…

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Dada, l’anti-arte e la libertà dadaista – storia delle correnti artistiche

Francesco Tadini

Francesco Tadini Archivio: Maestri del Colore n 278

Dada, l’anti-arte e la libertà dadaista – storia delle correnti artistiche. Dada, che nasce e si sviluppa quasi negli stessi anni della pittura metafisica, non ha con questa rapporti né vera unità di intenti. Abitano però lo stesso versante della fantasia e dell’irrazionale, ed hanno in comune la diffidenza verso un concetto dell’arte finora regolarmente accettato. Ma la pittura metafisica compiva la sua rivoluzione all’interno dell’arte, stringeva l’immagine dentro le strutture plastiche e uno spazio, che rimaneva lo spazio della pittura; si poneva al di là solo in senso psicologico ed emotivo; non era totalmente eversiva, ma portava a una tensione completamente nuova, e quindi rivoltata, fatti in parte antichi.

Dal testo introduttivo a “Dal Surrealismo alle correnti più recenti” di Roberto Tassi, nel XXVIII  volume della Storia della pittura de “I Maestri del Colore” dei F.lli Fabbri.

Ma l’in­sieme di manifestazioni dello spirito artistico dell’uomo del Novecento che va sotto il nome di dada è invece eversivo di ogni condizione che si dava prima nell’arte: è avanguardia solo parzialmente, poiché non rispetta neanche le regole dell’avanguardia; soprattutto non è un movimento poiché non ha dati teorici o programmatici che possano determinare un minimo di coesione tra i suoi aderenti, se non quello appunto di non averli, di rimanere nella più completa libertà e anarchia nei confronti non solo di ogni corrente artistica, ma dell’arte stessa. Il concetto fondamentale di dada è quello dell’anti-arte; nella sua furia negativa e poiché vuole veramente partire da zero, dada nega per prima cosa l’arte, e quindi l’artista; nega l’arte come concetto di creazione spirituale, l’artista come uomo che crea sotto l’influsso dell’ispirazione. Vuole dissacrare questi miti più elevati, e i miti di tipo tecnico che ne discendono, cioè la distinzione fra le arti, la pittura come tecnica rigorosa fatta sempre in un certo modo, con determinati materiali (pennello, colori, tela ecc.). Dada fa entrare nuovi materiali nella pittura e inventa, con questi, oggetti nuovi, che costituiscono il quadro. Ma nella libertà dadaista c’è posto naturalmente anche per opere dipinte con metodi tradizionali, e allora sarà il soggetto ad essere anti-artistico (Picabia che dipinge regolarmente delle macchine che non hanno funzione vera ma simbolica o anche solo irritante).
Insomma l’unità (se così può chiamarsi) dadaista era data solo dalla disposizione intellettuale. Scrive Hans Richter, uno dei protagonisti della nuova rivolta: “Il dada non fu caratterizzato, come altri stili, da unitarietà formale; esso ebbe però una nuova etica artistica dalla quale nacquero, in verità inattese, nuove forme di espressione. Questa nuova etica trovò espressioni assolutamente diverse nei diversi paesi e nei diversi individui, a seconda del centro interiore di gravità, del temperamento, della provenienza e del livello artistici del singolo dadaista. Essa si manifestò in modo talvolta positivo, talaltra negativo, ora come arte, ora come negazione dell’arte; talvolta essa apparve profondamente morale, e talaltra assolutamente amorale”.
Da un certo punto di vista dada è un fenomeno che corrisponde, sul piano intellettuale, a quella esplosione che fu, sul piano fisico, la guerra mondiale; si sviluppò infatti, contemporaneamente nei due paesi che erano fuori dal conflitto, la Svizzera e l’America; fu lo scoppio dello spirito di rivolta in seno a una civiltà giunta a un punto estremo di maturazione. Nello stesso tempo era ribellione contro la guerra e sua condanna; coltivava nel suo seno delle forze di autodistruzione.

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Carlo Carrà e Giorgio Morandi: l’esperienza della pittura metafisica

Francesco Tadini

Francesco Tadini Archivio: Maestri del Colore n 278

Carlo Carrà e Giorgio Morandi: l’esperienza della pittura metafisica – A De Chirico si affiancarono nell’avventura metafisica due altri pittori italiani: Carrà, dal 1916 al 1921, e Morandi per due anni, nel 1918 e nel 1919. La loro partecipazione ha però un senso molto diverso da quel­lo dechirichiano, cui è complementare; poiché essi vi portano la chiarezza formale, e quasi classica, italiana.

Dalla introduzione a “Dal Surrealismo alle correnti più recenti” al volume XXVIII della Storia della pittura ne “I Maestri del Colore” dei F.lli Fabbri, di Roberto Tassi.

La parte di Carrà è più complessa, come era stata la sua formazione; lavorando a stendere l’atmosfera rarefatta, il vuoto pneumatico che dà agli oggetti il nitore solidificato di un tempo immobile, assottigliando la splendida superficie plastica della materia tirata ormai ad una essenzialità assoluta, stemperando residui di cubismo, in­canti prospettici alla Paolo Uccello, intensità cromatiche tra lombarde e francesi, profondendo così non ango­scia, non ironia né inquietudine, ma solo stupore sospeso della realtà, Carlo Carrà raggiungeva nella Natura morta con squadra, nel Cavaliere occidentale, in Penelope, nella Composizione TA, nell’Idolo ermafrodito, un livello assai intenso di quella poesia plastica per immagini, che costituisce il filone centrale della più autentica tradizione figurativa italiana. Partendo dal tentativo di captare l’illuminazione provocata dai « baleni delle cose ordinarie » e di conoscere quindi la realtà venendo “dalle profondità alle superfici” Carrà giunge a raccontarci, delle cose, le avventure profonde, nel loro umano e misterioso consistere.
La parte di Morandi è più essenziale, di una perfezione assoluta; nei suoi pochi quadri metafisici ogni cosa è immobile in un equilibrio così arrischiato che basterebbe un soffio a interrompere; non c’è solo però in queste opere la purezza dell’antica misura spaziale italiana o la sostanza solida di una forma portata alla sua eterna definizione, ma anche, a volte, penetrato dagli interstizi di uno spazio che sembrerebbe a tenuta perfetta, il soffio leggero e inquieto di un’atmosfera magica, quasi a tratti medianica, oggetti sospesi nell’aria, fogli fluttuanti, privi di peso, una bottiglia decapitata, come un nero fantasma.
Arcangeli trova che “d’incontro con la metafisica ferrarese, Giorgio Morandi espresse una diversa concezione spaziale con cui ha sempre fatto i conti nel corso della sua arte; per eliderla, magari. Questa concezione di spazio profondo, non più sospeso entro la sottile e squisita intercapedine delle sue dimensioni, è in lui nuovo e schietto respiro corale. Morandi sceglie la metafisica come voluto approfondimento dei suoi valori plastici e nell’alluci­nante tensione morale e poetica di quella volontà è il suo unico tributo alla poetica di quella scuola”.
La pittura metafisica scioglie la sua tensione nel giro di pochi anni, ma esercita influenze durevoli sui successivi movimenti europei, anche in direzioni diverse, quasi opposte: la più evidente è quella sul surrealismo francese. Ma, presentata a Berlino nel 1921, se ne trovano influssi diretti in alcune opere di Grosz del 1921 e del ’22 e, in seguito, e soprattutto per la concezione dello spazio e la preminenza delle forme plastiche, su quella parte degli artisti della nuova oggettività, che sono stati riuniti sotto la formula del realismo magico; e forse è po­tuta arrivare, attraverso queste vie complicate, fino all’oggettualismo della pop art.

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La pittura nel secondo dopoguerra e il nuovo corso – Storia dell’Arte

Francesco Tadini

Francesco Tadini Archivio: Maestri del Colore n 278, 2

La pittura nel secondo dopoguerra e il nuovo corsoStoria dell’Arte. Può partire di qui un discorso generale anche su quello che abbiamo chiamato il nuovo corso della pittura dopo la seconda guerra mondiale. Per quanto, trarre con sicurezza illazioni generali da un campo così vasto di sperimentazione, in cui confluiscono non soltanto, con la preponderanza che abbiamo detto, influenze della terza linea, ma, volta a volta e sia pure molto parzialmente, anche delle altre e in cui trovano posto situa­zioni così diverse da diventare addirittura antinomiche, può sembrare pericoloso e quasi inutile…

Dal testo di Roberto Tassi che introduce “Dal Surrealismo alle correnti più recenti” al volume XXVIII della Storia della pittura ne “I Maestri del Colore” dei F.lli Fabbri.

Una grande divisione preliminare è necessaria per distinguere, quasi senza possibilità di rapporti, le correnti che stanno dalla parte dell’astrazione, dall’astrattismo storico al neo-concretismo e all’arte programmata, da quelle che stanno dalla parte di una realtà che ha stretti rapporti con l’esistenza, informale e pop art con un intermezzo di new dada. Consideriamo queste ultime, che a noi sembrano le più originali. Senza azzardarci a specificare troppo, possiamo almeno riconoscervi due caratteristiche comuni: il rapporto del fare pittorico con la vita e col mondo, già riscontrato nei movimenti precedenti, e che si va facendo sempre più stretto, sempre più necessario e inalienabile; e il ripudio del formalismo, che ne è una diretta conseguenza. È chiaro che non appena un’opera, che ha come prima ragione di convogliare vita nell’immagine e come suo cammino il divenire nell’esistente, cede a una lusinga formalistica, immediatamente deperisce come un oggetto inutile. Le opere informali, neo-dada e pop art possono solo resistere su questo alto limite di tensione in cui la vita si fa materia dell’arte; anche questo un al di là della pittura.
Emergono però da tale panorama alcuni artisti che hanno una storia solitaria, cioè conscia delle correnti del tempo ma abbastanza ostinata e individua da non determinarle e neppure lasciarsi influenzare: De Staél, Giacometti, Sutherland, Bacon, Morlotti, Guttuso.

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Dal Surrealismo alle correnti artistiche del dopoguerra – Storia della pittura

Francesco Tadini

Francesco Tadini Archivio: Maestri del Colore n 278, 1

Oltre le avanguardie storiche e la linea dell’espressività – fauves, espressionismo, realismo sociale – c’è una terza linea di sviluppo della pittura del XX secolo che, nata all’inizio del secondo decennio, arriva fino alle soglie della seconda guerra mondiale. Essa darà apporti e suggestioni, più direttamente delle altre, al ‘nuovo corso’ di quella pittura, che si apre subito dopo la guerra e che, frantumandosi in una innumerevole varietà di aspetti, di correnti, di azioni e reazioni, rende vitale e complicatissimo il ventennio che arriva fino al momento attuale. Apporti e suggestioni, diciamo, ma non continuità, poiché lo spartiacque della guerra si è rivelato solidamente divisorio, anche per essersi situato verso la metà del secolo, quando le energie immense che avevano aperto il secolo, e delineato la prima figura dell’arte contemporanea, si stavano esaurendo.

Così comincia il saggio introduttivo di Roberto Tassi, intitolato “Dal Surrealismo alle correnti più recenti” al volume XXVIII della Storia della pittura ne “I Maestri del Colore” dei F.lli Fabbri. Il primo capitolo è:

METAFISICA, DADA, SURREALISMO: L’ ALTRO LATO DELLE COSE

La terza linea comprende la pittura metafisica, dada e il surrealismo. In essa convergono alcuni elementi delle avanguardie, come lo spirito di eversione e di rivolta, e la circoscrizione ideologica ben delimitata; ed alcuni della seconda linea, come il carattere non formale e l’accentuazione dell’espressivo. Ma ciò che sostanzialmente la caratterizza e forma la sua ragione più vitale, è il porsi come anti-arte o almeno come un’arte ‘altra’ rispetto alla concezione finora più o meno rispettata; aspetto teorico questo, nato direttamente dal nuovo scopo, che è di indagare e conoscere un lato diverso e nascosto della realtà, 1’altro lato delle cose. Naturalmente in questa indagine si scoprono delle dimensioni dell’esistenza talmente nuove, misteriose e stratificate da rendere, almeno apparentemente, insicuri o molto sfumati i confini usuali dell’attività artistica.
Il rapporto col mondo, con la vita, diventa così molto forte e l’indagine dei fatti misteriosi della realtà si traduce necessariamente in un’eccedenza di contenutismo; la bellezza formale cede di fronte all’intensità psicologica, lo splendore cromatico di fronte all’atmosfera inquietante, la chiarezza della costruzione plastica di fronte all’ambiguità di una presentazione fantastica. Il mondo di questa pittura non è mai quello chiaro delle apparenze, quello logico di una visione razionale; è invece il mondo oscuro, sotterraneo, analogico delle conoscenze seconde, dei fatti e delle cose che stanno di lato o sopra il reale, metafisica, surrealtà; è il mondo irrazionale e fantastico delle apparizioni; delle ‘figure’ che nascono dall’interno, dal profondo, in seguito alla energia magica che si sprigiona dagli accostamenti più disarmonici e illogici, dalle attribuzioni più irritanti. Le nuove ‘figure’ si pongono insomma in una specie di ‘al di là’ della pittura.
Loro caratteristica è quella di un forte grado di ermetismo; esse colpiscono all’improvviso per la forza della loro inusitata apparenza, della loro novità scandalosa; la conoscenza più vera verrà poi ad uno scandaglio minuzioso, ad una attenzione prolungata e libera. La continuità dell’immagine non è più rispettata.

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Max Ernst, di Emilio Tadini – storia dell’arte contemporanea

Max Ernst

Max Ernst

Max Ernst nasce a Brùhl, in Renania, il 2 aprile 1891. È una grossa famiglia, quella degli Ernst. Otto figli, di cui tre ma­schi, (una sorella, Louise, morirà uccisa dai nazisti). Philippe, il padre, ha un lavoro piuttosto fuori del comune: è istitutore in un ritiro per sordomuti. Ma oltre a questo è anche pittore. Il vescovo lo incarica di far delle copie dai classici, e lui le esegue minuziosamente, però ci mette dentro le persone che conosce, gli amici come angeli, i nemici come diavoli. Le pri­me letture di Max Ernst sono Verne, Grimm, Hoffmann, Lewis Carrol. Nel 1909 Max Ernst segue all’università di Bonn i corsi di filosofia. Vorrebbe specializzarsi in psichiatria. Non esiste più niente della sua produzione pittorica di quegli anni, ma il clima culturale in cui si sviluppa il suo lavoro è un cli­ma intensamente romantico. È in rapporto con il gruppo « La giovane Renania », guidato da August Macke, pittore, poeta, saggista; con il gruppo del « Cavaliere azzurro » di Monaco (cui fanno capo anche Kandinsky e Franz Marc); con « Der Sturm », una rivista berlinese di avanguardia. Quando Apolli- naire viene a Bonn a trovare Macke, Ernst passa con lui due ore a parlare d’arte, anzi, a sentirlo parlare d’arte, ‘conquista­to’ , come dirà, da quelle rivelazioni. Ma sarà nel 1911, in una mostra a Colonia, davanti a opere di Vàn Gogh, Cézanne, Picas­so, che Max Ernst avrà completa coscienza della sua vocazio­ne di pittore. Nel 1913 fa la conoscenza di Hans Arp, a Co­lonia. È Arp che gli fa leggere Rimbaud. Con la guerra, Max Ernst deve fare il soldato per due anni. Lui, e gli altri del gruppo, dirà, avevano « il cuore pieno di rabbia » all’idea di sacrificare « le loro magnifiche vite » per niente, per qualche parola retorica. Nel 1918 sposa Lou Strauss. Nel 1919, durante un soggiorno a Monaco, scopre le pubblicazioni Dada di Zurigo e un numero della rivista italiana « Valori Plastici », dedicato a De Chirico: saranno due momenti basilari, per lui. I suoi rapporti con i dadaisti lo portano a rompere con il grup­po della «Giovane Renania». Nel 1920 espone oggetti Dada insieme ad Arp. Poi incomincia a lavorare ai collages. Nel 1920, inviato da André Breton, espone alla galleria « Sans Pareil » di Parigi. Nel 1920, a Colonia, si incontra con Kurt
Schwitters, che gli mostra i suoi collages. Poi sarà Max Ernst Ernst che andrà a trovare l’amico, nella sua casa di Hannover, piena di costruzioni fantastiche fatte di rifiuti, di oggetti trovati per strada. Durante l’estate, a Tarrenz, in Tirolo, si incontrano gli artisti d’avanguardia di tutta Europa. C’è Tzara, e anche Breton. Paul Eluard va a trovare Ernst a Colonia, si entusiasma al suo lavoro e gli acquista alcuni quadri. Ed è Eluard che convince Ernst a trasferirsi a Parigi nell’agosto del 1922.
A Parigi la vita è dura, per Ernst. Deve lavorare in una fab­brica di ricordini. Ma si incontra quotidianamente con Eluard, Desnos, Picabia. Tornando da un viaggio in Estremo Oriente, iniziato al seguito di Eluard, Ernst trova a Parigi, nel 1924, il « Manifesto del Surrealismo », di Breton, e vi riconosce le sue idee più profonde. Nel 1925, colpito dalle frasi di Leonar­do sulle immagini racchiuse in una semplice macchia, inizia i ‘frottages’. Nel 1926 pubblicherà i frottages della Histoire na- turelle con prefazione di Arp. Nel 1926 una sua mostra alla galleria Van Leer ha grande successo. Ora può dedicarsi solo alla pittura. Poi, le altre amicizie che contano: con Panguy, con Giacometti. Nel 1936, dopo un decennio di lavóro intensissimo, incomincia ad usare la tecnica della decalcomania, comprimen­do il colore tra due tele o tra una tela e un foglio di carta. Con lo scoppio della guerra, Ernst deve spostarsi da un campo di concentramento per stranieri all’altro, nel terrore di cadere in mano ai nazisti. Nel 1940, a Marsiglia, mentre è in attesa di partire per gli Stati Uniti, conosce Peggy Guggenheim. La sposerà appena arrivato in America, ma divorzierà sei mesi dopo. È con Doro tea Tanning, pittrice surrealista americana, che Max Ernst si stabilisce a Sedona, in Arizona. Quando nel 1949 tor­na a Parigi con sessanta tele, la sua mostra da Drouin non ha un gran successo commerciale. Ci vorranno parecchi anni pri­ma che le sue opere vengano valutate secondo il loro valore. Il gran premio alla Biennale di Venezia del 1954 (che gli co­sterà la ‘scomunica’ di Breton, papa del movimento surrealista) sarà il segno di un riconoscimento aperto e generale.
Ed è proprio a Venezia, a Palazzo Grassi, che nel 1966 Max Ernst tiene una grande mostra, intitolata « Oltre la pittura ».

Emilio Tadini

Dal n°188 de I maestri del Colore, 1967

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Georges Sorel: Riflessioni sulla violenza – i sindacati e gli operai visti nel 1906

Georges Sorel

Georges Sorel

Georges Sorel Riflessioni sulla violenza – i sindacati, gli operai e le democrazie. Il titolo originale dell’opera di Sorel è Réflexions sur la violence e fu pubblicata dallo scrittore francese (1847-1922) nel 1906. È il suo libro più celebre e consiste in una serie di articoli apparsi nella rivista Le mouvement socialiste. Ingegnere di ponti e strade, Sorel aveva tratto dal continuo contatto con gli operai una profonda ammirazione per il loro valore umano e sociale, e la convinzione che la classe operaia rappresentasse una nuova forza rigeneratrice di tutta l’umanità. Di questa idea il Sorel si fa, nel libro, ardente propugnatore. Si scaglia perciò contro i sostenitori della decadenza e della corruzione, che vede rappresentati dalla civiltà borghese, contro l’intellettualismo illuministico, scettico e mondano, nell’intento di proiettare le masse operaie in un violento slancio rivoluzionario senza attenuazioni o compromessi. Però l’avvenire del proletariato dipende dall’educazione delle masse. L’errore dei socialisti politici è di contentarsi dei successi passeggeri e di trascurare la formazione delle élites operaie.

Tale compito sarà realizzato dai sindacati nei quali gli operai si devono schierare, indipendenti e autonomi, in un clima epico ed eroico, fondando così la nuova salda civiltà del proletariato. Sotto l’azione dei sindacati le élites si svilupperanno, s’imbeveranno delle nuove ideologie sulla produzione, sul diritto, la morale, la religione; grazie al contatto frequente con le masse manterranno alto il sentimento della lotta di classe e accresceranno poco a poco le istituzioni propriamente proletarie. Le quali alla fine faranno saltare i quadri della borghesia decadente, e al mondo attuale sostituiranno un mondo nuovo, una societa costruita non sui pregiudizi delle classi possidenti, ma sulla produzione liberata dalle gerarchie e dalle istituzioni del passato e dallo stesso Stato.

L’opera del Sorel appartiene al primo periodo dei suoi scritti sociali, quando aveva accettato la teoria marxista, trasportando però la missione della classe operaia dal piano economico a quello etico. Sono evidenti gli influssi di Proudhon e di Marx, i due “fratelli nemici” dei quali il Sorel, come è stato detto, rappresenta a una sintesi personalissima. Non va dimenticata tuttavia l’influenza che sul teorico della violenza ebbero Bergson, W. James e Nietzsche. Socialista rivoluzionario, sindacalista puro, partigiano deciso del rovesciamento sociale, Sorel deve ai due ispiratori del socialismo quasi tutti gli elementi del suo sistema: egli si allontana dai due maestri solo dove postula l’esigenza di una morale sociale intransigente e implacabile.

Georges Sorel doveva trovare negli anni seguenti amare delusioni nel pacifismo sociale, nelle democrazie, nella guerra mondiale, che considerò come un fallimento dell’intelligenza europea. Attaccò quindi le democrazie nelle quali vedeva il maggior pericolo per la società, gli ebrei ai quali attribuiva gli eccessi della rivoluzione sovietica, e assumendo infine atteggiamenti che lo definirono il precursore spirituale dei movimenti successivi. Ma nella quinta edizione delle Réflexions aggiunse un “Plaidoyer pour Lénine” in cui riconosce nel rivoluzionario russo Lenin il “gigante” destinato a salvare la causa delle masse operaie.

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Storia di Milano di Pietro Verri

storia di Milano

storia di Milano – Pietro Verri

Storia di Milano di Pietro Verri. Opera in due volumi di Verri (1728-1797), pubblicata dal 1783 al 1797 e rimasta incompleta per la morte dell’autore. Come il Verri stesso dichiara nella prefazione, è un’opera di divulgazione storica, in cui si contemperano due sentimenti, “amore del vero e amore della patria”. Vi si narra la storia della capitale lombarda dalla devastazione di Attila; e dopo aver descritto lo stato di rovina della città sotto i barbari nei secoli V-VI, si accennano le condizioni generali dell’Europa e d’Italia, nel quadro delle quali è collocato il risorgere di Milano.
Pietro Verri mette in rilievo la politica accorta dei vescovi milanesi che, oscillando nel dare appoggio ora alluno ora all’altro dei feudatari contendentisi il regno italico, mirano sostanzialmente a mantenere la città in uno stato di autonomia; l’indipendenza effettiva è raggiunta difatti nel secolo XII, epoca in cui le sollevazioni, provocate da motivi d’indole insieme politica e religiosa, sono indizio di un’intima vitalità di Milano. Quattro ampi capitoli sono dedicati alla vita della nascente repubblica medievale e alle sue lotte con Federico I di Svevia. Quindi il Verri si diffonde a parlare della signoria viscontea, accennando anche ai principali monumenti artistici costruiti a Milano in quell’epoca: con acuto spirito storico conserva serenità di giudizio sia verso l’assolutismo dei signori, che non approva, ma che giustifica inquadrandolo nelle circostanze del tempo, sia verso la condotta politica della borghesia del Medioevo e del Rinascimento. Il secondo volume si apre con le lotte per il predominio tra Francia e Spagna nell’Italia settentrionale, delle quali Milano fu teatro principale tino alla pace di Cambresis: a questo punto la narrazione del Verri s’interrompe. Essa fu continuata da Egidio De Magri che giunse fino ai primi decenni del sec. XIX.

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PIRANDELLO L’uomo dal fiore in bocca, atto unico: la prima al Teatro Manzoni di Milano nel 1922

Pirandello

Pirandello

PIRANDELLO L’uomo dal fiore in bocca, atto unico. Dialogo di Luigi Pirandello (1867-1936) – rappresentato al Teatro Manzoni di Milano per la prima volta nel 1922 – e tratto, con poche varianti, dalla novella La morte addosso.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello, 1934

Il breve atto si svolge di notte, in un caffè, tra un uomo su cui pesa un verdetto di morte (affetto da epitelioma, il “fiore in bocca“: il tumore alla pelle più frequente), e uno che a perduto il treno ed è costretto a passar la notte seduto a un tavolino. Ma il dialogo si riduce a un lungo monologo dell’uomo presso a morire, e che analizza le sue sensazioni, sapendo che sono le ultime, con l’animo turbato da questa condanna.

Così, come è impossibile che “le case di Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate“.

Qui si svela l’impressionismo pirandelliano: la voce umana, sulla porta del sensibile, è più che mai cupa e sensitiva. All’uomo dal fiore in bocca, così tristemente lucido, sono più chiari il senso della perdita, il fisico ragguaglio di ogni conoscenza: non rimpianti, non rimorsi, non ricordi, mal’immediata presenza di cose rese tanto più care dalla certezza dell’abbandono.

Nessuna esperienza morale può affermarsi di contro a questa solitudine del godimento e allo spavento, contemporaneo alla vita, della morte. Questa meditazione pirandelliana è un soliloquio disperato e legato ai sensi. Il risultato della morte è una fine dei sensi, la speranza una realtà dei sensi.

Cosi la morte è una forza misteriosa e sensuale, rimasta naturale malgrado ogni tentazione della civiltà, ogni allettamento. E l’intensità di questo atto unico deriva appunto dalla immediatezza della sensazione.

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Storia dell’architettura di Auguste Choisy: la storia dell’arte è storia delle idee

storia dell'architettura

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Storia dell’architettura la storia dell’arte è storia delle idee L’opera di Auguste Choisy (1841 – 1909) è uscita nel 1899 a Parigi. Secondo lo Choisy, l’architettura è profondamente legata alla civiltà; la sua storia è perciò una sintesi della storia umana. Ciò risulta particolarmente nelle di edilizia preistorica, che si svolge in funzione del clima e della forma di vita organizzata, seguendo il progresso della tecnica e adattandosi agli impulsi primordiali verso il colossale, alle tendenze religiose. Elementi determinanti sugli atteggiamenti dell’arte sono non soltanto la tecnica, ma anche i gusti connaturati: la colonna egiziana non deriva la sua forma singolare dalla funzione pratica che esercita, ma dall’imitazione della natura e forse dai riti invalsi. Negli ordini classici il punto di partenza è dato dalla forma e non dalla struttura; questa, invece di imporre le sue esigenze, si adatta a quella. Ugualmente, la lentezza di evoluzione dell’arte egizia testimonia dello spirito tradizionalista di quel popolo.

Nella Grecia formata dall’invasione dorica, la razza dominante – montanari vissuti in Tessaglia lungi dal contatto con la raffinata civiltà orientale – impone un’architettura maschia e rude in cui lo stimolo alla creazione sarebbe derivato dalla suddivisione in piccoli Stati indipendenti e in gara fra di loro.

In confronto con quella greca, astratta e armonica, l’architettura romana appare essenzialmente utilitaria politica. L’architettura delle grandi masse coperte a volta, legate intimamente alla potenza politica e all’organizzazione accentrata delle maestranze, cessa con la caduta dell’impero, al cui sistema era intimamente legata. In diversi principi valgono per l’arte gotica, che trova la sua culla nella Ile-de-France. Essa infatti è in stretta dipendenza della formazione del potere statale.

Lo Choisy non è eccessivamente inclinato all’arte gotica, inquieta e di scarsa originalità: l’ogiva si trova già in Armenia e l‘arco rampante non è se non una necessità imposta dall‘audacia costruttiva dell’architettura cluniacense.
Tuttavia egli ammira la logica: si tratterebbe del più interessante sforzo che la logica abbia espresso nell’arte. Dall’inizio alla fine della sua evoluzione essa non ha uno scopo: quello di ridurre le masse.

Secondo lo Choisy, la storia dell’arte è storia delle idee, e, poiché le idee si trasmettono attraverso gli scambi, è allo sviluppo e agli orientamenti dei traffici commerciali e delle correnti politiche che si deve chiedere la ragione di tali relazioni. Le stesse considerazioni valgono anche per le varie correnti che agiscono sulla formazione dei principali indirizzi dell’architettura romanica. Ancora una volta le vie di trasmissione sarebbero costituite dalle stesse correnti commerciali. La vasta opera di storia dell’architettura dello Choisy, di indole tecnicistica positivista, è ampiamente documentata quanto allo sviluppo della tecnica edile, illustrata graficamente attraverso le assonometrie.

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Identità e realtà di Émile Meyerson – filosofia della scienza

identità e realtà

identità e realtà

Identità e realtà di Émile Meyerson – filosofia della scienza. Il libro – del 1908 – è l’opera fondamentale di Émile Meyerson (1859-1933), filosofo polacco vissuto in Francia e spiritualmente legato alla tradizione filosofica francese. Questo lavoro sostiene una teoria della scienza che si fonda sulla negazione dell’ positivista. Positivismo è preso qui in due significati fondamentali secondo l’epistemologia di Auguste Comte: nel suo carattere antimetafisico e nel suo carattere pragmatico. In generale esso presume la concezione “legale” della scienza e può quindi estendersi a correnti epistemologiche più recenti che alla dottrina comtiana non si richiamano direttamente: così i diversi movimenti di reazione alla visione scientifico-filosofica del 19º secolo, come l’idealismo epistemologico contemporaneo. L’autore, portando la sua analisi nel campo dell’esperienza scientifica “Che si fa”, dimostra che il positivismo non ha nulla a che vedere con la scienza.

Essa rimane ontologica e dogmatica: crede con il “senso comune” all’indipendenza dell’essere di fronte alla coscienza e se distrugge la realtà della visione ingenua, è per sostituirvi un’altra realtà meno qualitativa, ma per questo più in se.

Contro il dominio della “legalità” affermato dai positivisti, Émile Meyerson sostiene l’intervento nella costruzione del sapere scientifico della “causalità”. La causalità è il “principio di identità” applicato ai fenomeni nel tempo. Per cui la causalizzazione della reale o spiegazione scientifica si risolve in un tentativo di deduzione dell’essere, di derivazione necessaria dell’effetto dalla causa e quindi di identificazione. Procedendo di identità in identità, annullando il divenire prima e la diversità qualitativa poi, è alla dissoluzione della reale nello spazio vuoto, all’acosmismo che la scienza tende: è la sfera di Parmenide. Cartesio ha visto giusto. Ma il principio di identità, di cui Émile Meyerson preciserà meglio nei lavori successivi il significato attivo, dinamico e sintetico, quale processo di identificazione, non è che una condizione della scienza; aprioristico, trascendentale in senso kantiano, esso esprime l’essenza della ragione e in ciò indica unicamente un’esigenza e una direzione.

Una scienza pura, una sapere aprioristico non sono dunque possibile. È la scienza stessa che reintegra la realtà nei suoi diritti. Il principio di Carnot è l’espressione della resistenza che la natura oppone all’azione riduttrice della causalità. La tesi principale dell’opera e questa tensione tra ragione e reale, razionale e irrazionale, “identico” e “diverso”, tensione che non sottintende un dualismo metafisico, ma sostiene la “polarità” del pensiero. Essa ci conduce a una forma di razionalismo critico che si ispira a Cartesio e a Kant e nel quale si tende a difendere l’aspetto tradizionale della scienza attraverso una sistemazione originale e a ritrovare nell’unità del “razionale” (identità) il senso e il valore del progresso scientifico.

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Lucrezia Borgia di Victor Hugo e l’opera di Gaetano Donizetti – riassunto

Lucrezia Borgia

Lucrezia Borgia, dettaglio dal ritratto di Bartolomeo Veneto

Lucrezia Borgia di Victor Hugo e l’opera di Gaetano Donizetti – riassunto. Lucrezia Borgia è un dramma in tre atti, in prosa, di Victor Hugo (1802-1885), rappresentato nel 1833. Non è tra i migliori dell’autori, benché la sua tecnica scenica perfettamente conforme agli schemi del teatro romantico gli abbia conseguito un carattere melodrammatico caro alle platee dell’epoca.

Lucrezia Borgia

Lucrezia Borgia, ritratto di Bartolomeo Veneto

A Venezia, durante un ballo in maschera, Lucrezia Borgia si trova di fronte al proprio figlio Gennaro, un giovane capitano di ventura ignaro delle proprie origini, e sta per svelargli l’essere suo, dopo averlo baciato mentre egli dormiva. Ma gli amici raccontano scherzosamente la vita corrotta della donna che lo ha baciato, ed ella è ormai costretta a tacere.

Un seguito di vicende a grande effetto conduce all’arresto di Gennaro, a Ferrara, da parte del duca Alfonso d’Este, che le attenzioni della moglie Lucrezia verso il giovane ospite della corte avevano reso geloso. Lo stesso duca costringe poi Lucrezia ad avvelenare Gennaro, ma ella riesce a salvarlo. Ha giurato a se stessa di vendicarsi di coloro che hanno per sempre offuscato la sua immagine agli occhi del figlio, a cui ella non potrà più rivelarsi madre, in un banchetto festoso a cui tutti sono invitati ella li avvelena; una fila di bare è già pronta per loro e appare, fra canti funebri, anche sulla scena. Ma Lucrezia non sapeva che il figlio fosse fra gli invitati; è dunque avvelenato, ma prima che la morte lo raggiunga si vendica della donna che egli giudica infame e la pugnala. In quel momento Lucrezia Borgia gli grida che è sua madre.

Victor Hugo

Victor Hugo nel 1875, foto di Walery

Il dramma è esterno, si svolge piuttosto nelle situazioni che nell’animo dei protagonisti; anche Lucrezia si muove senza vero carattere di vera passione. L’interesse della tragedia è soprattutto nel clima da incubo e di ossessione creato dal linguaggio di Victor Hugo.

La Lucrezia Borgia di Victor Hugo poteva benissimo adattarsi alla musica della melodramma. Felice Romani ne trasse infatti un libretto per la Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti (1797-1848), rappresentata a Milano nel 1834. Fra i 60 melodrammi scritti da Donizetti, la Lucrezia non raggiunge la concreta e definita bellezza che caratterizza l’Elisir d’amore, la Lucia di Lammermoor (libretto di Salvadore Cammarano) o il Don Pasquale (libretto di Michele Accursi). Il maggior difetto dell’opera è nel mancato approfondimento del dramma: i ritmi vivaci e arguti, quando le situazioni sono più tragiche, danno spesso un penoso senso caricaturale. L’opera non poggia su di un fulcro e l’interesse di essa molto spesso si disperde nelle scene marginali, invece che concentrarsi nelle situazioni e nei personaggi principali. Ma accanto a pagine in cui l’espressione musicale è incerta e grigia vi sono sprazzi di luminosa fantasia, in cui l’invenzione melodica trova accenti più che felici.

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Le nuvole Aristofane: Strepsiade, Socrate e Fidippide – riassunto

Le nuvole di Aristofane

Le nuvole di Aristofane

Le nuvole, di Aristofane, riassunto: Strepsiade, Socrate e Fidippide –  Nelle Nuvole di Aristofane (450-385 a.C. circa) Strepsiade è il padre di Fidippide, il ricco proprietario terriero che si è trasferito in città dopo un matrimonio illustre. Ma è rimasto sempre contadino, zotico negletto, con l’astuzia del piccolo intrigo e una fondamentale sanità morale. La sua casa è una gabbia di matti: una moglie raffinata della migliore nobiltà ateniese, un figlio spendaccione scavezzacollo che gli ha dilapidato il patrimonio e la ridotto carico di debiti per la sua passione ai cavalli.

Aristofane

Le nuvole di Aristofane

Si apre la commedia con le tristi considerazioni del vecchio sulla disastrosa situazione economica della casa. Una sottile e gustosissima ironia nasce dal contrasto tra la gretta smania di economia del Vecchio delle incoscienti e lussuose piacevolezze della moglie e del figlio.

Ma la furbizia campagnola e interessata soccorre: sa della scuola di Socrate, dove si insegna a far prevalere la parte del torto su quella del giusto; vi porterà il figlio e salderà i suoi debiti con due chiacchiere. Ma il figlio non vuol sentire parlare del pensatoio di Socrate, e il vecchio ci si reca egli stesso per imparare quell’arte sublime.

Aristofane comincia qui una lunga scena tra Socrate e Strepsiade durante la quale il vecchio sostiene la parte del tonto, cioè la tradizionale controfigura comica del personaggio dotto: generalmente la tecnica comica ama accoppiare al personaggio del sapiente un uomo credulone stupido per ridicolizzare con più evidenza le spesso assurde stranezze del saggio.

Naturalmente Strepsiade è considerato del tutto inabile alla scuola di Socrate. Quando vi ritorna con il figlio, e questi impara a far prevalere la parte del torto, si accorge con triste esperienza dell’errore compiuto, perché il figlio picchiatolo, gli dimostra che è giusto che il figlio picchi il genitore. Allora riaffiora in lui il tratto morale, sano e rude del contadino, e appicca il fuoco al pensatoio di Socrate.

Un leggero intento dimostrativo del personaggio è risolto in una descrizione ironica e divertita, ma in fondo benevolente, del suo carattere gretto e avaro, delle sue piccole astuzie interessate, delle sue discordie familiari. È uno dei personaggi più borghesi e meno fantasiosi delle commedie di Aristofane, e forse per questo ha offerto numerosi spunti alla commedia nuova e quindi alla commedia latina.

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Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione – riassunto

Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau – ritratto da Maurice Quentin de La Tour,1750-1753

Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione – riassunto. Con Emilio, il protagonista dell’opera, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) prova a far comprendere il naturalismo pedagogico e i principi psicologici dell’educazione moderna. Emilio, dapprima una creatura passiva e ricettiva, su cui il maestro (in questo caso l’autore) sperimenta il proprio metodo educativo, si anima via via che viene informato e plasmato dalle mani della docente. Orfano e di famiglia ricca, egli cresce lontano dalle convenzioni cittadine, guidato dalla volontà propria e dalle leggi della natura; più a contatto delle cose che dei libri, si libera dalla schiavitù della tradizione e, avendo a esempio la storia di Robinson Crusoe, suo “simile” – unico trattato concesso alla cultura del giovane – impara un mestiere, finché non avverte nascere spontaneamente in se stesso sentimenti morali, sociali, religiosi.

Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau, prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762)

Quindi, imbattutosi, per un preordinato incontro, in Sofia, la giovinetta che è stata educata in campagna al solo fine di far felice un uomo e di avviarsi alle gioie intime della famiglia, si innamora di lei. Obbligato dall’educatore a soffocare per qualche tempo il suo sentimento, Emilio viene condotto per due anni, attraverso numerosi viaggi, a contatto di uomini, popoli e Stati.

Soltanto allora, al termine di tali esperienze, egli potrà formarsi, con la compagna predestinata, una famiglia, che da principio alla rinnovata società.

Emilio ha, nell’intenzione dell’autore, una personalità propria e un’impronta “nazionale”: ma in realtà, tranne che in poche pagine, riesce una figura astratta, subordinata al principio che doveva incarnare, secondo la norma che la natura è buona e la società è cattiva, e che occorre riformarla dalle radici, sostituendo alla dominio della tradizione pedagogica l’autorità della natura e alla metodo della compressione quello della libertà.

Emilio è un personaggio sgorgato dalla fantasia di Jean-Jacques Rousseau per esprimere quella psicologia dell’infanzia che era stata preparata dagli studi del Preyere, del Perez, e l’igiene dell’infanzia sostenuta già da Rabelais, Montaigne, Locke, e che sarà seguita da Lessing, Kant, Goethe, Schiller, Richter, Basedow e altri.

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Milano, inaugurazioni mostre fotografiche a settembre 2016

mostre Milano settembre 2016

mostre Milano settembre 2016

Milano, inaugurazioni mostre a settembre 2016. Con un piede ancora in vacanza e l’altro smanioso di calcare i marciapiedi di Milano per gustarmi qualche bella mostra in arrivo – oltre, naturalmente, all’inaugurazione del 16 settembre a Spazio Tadini con l’esposizione in prima assoluta italiana dei Sony World Photography Awards – suggerisco qualche “visita da non perdere”. Partirei da WOMEN: New Portraits di Annie Leibovitz alla Fabbrica Orobia, che racconta, a colpi di grandissime fotografie, i mutamenti di ruolo della donna nella società odierna. Per i bambini e le loro famiglie WOMEN: New Portraits è anche contenitore di un laboratorio gratuito a cura di Ad Maiora e chiamato Family Fantasy. E’ in programma sabato 10 settembre e domenica 11 e, ancora, sabato 24 e domenica 25 settembre. Per gli orari: va in replica alle 10 e alle 11.
Bambini e genitori saranno protagonisti di un set fotografico per realizzare in seguito un collage intitolato appunto Family fantasy, che potrà essere ritratto di famiglia “reale” o inventata.

Alla Cascina Martesana (vedi MAPPA), da sabato 10 settembre fino al 29 settembre per la rassegna Altri Mondi – giunta alla settima tappa – una mostra per non perdere la ricerca fotografica di Giorgio Palmera – tra l’altro fondatore di Fotografi senza frontiere -che ha percorso la Colombia documentando le condizioni di vita dei desplazados, i profughi costretti ad abbandonare case e terre – c’è chi stima che in Colombia si possa parlare di un numero che rasenta i 6 milioni di persone (su una popolazione totale di 46 milioni!) – giacché evacuati o costretti alla fuga dalle zone di conflitto.

Siete ancora in tempo per non perdere a Forma Meravigli la mostra fotografica del fotogiornalista Dino Fracchia che racconta le due ultime edizioni del Festival del proletariato giovanile nel Parco Lambro: quelle del 1975 e del 1976. L’esposizione, a cura di Matteo Balduzzi, ha inaugurato il 23 giugno e resta aperta fino al 8 settembre. Orari per la visita: Mercoledì, Venerdì, Sabato, Domenica dalle 11:00 alle 20:00, Giovedì dalle 12:00 fino alle ore 23:00.

Infine, per non parlare solo di fotografia, ha appena inaugurato a Spazio Raw – in corso di Porta Ticinese 69 a Milano – una mostra bipersonale a cura di Valentina Cavera con le sculture di Gabriele Fiocco e gli oli su tela di Karin Feurich. L’esposizione si intitola Rosso D’Autunno. così quando cadono le foglie e resterà aperta fino al 14 settembre. Gli orari di apertura: dal lunedì al venerdì dalle 15.00 alle 19.30.

Francesco Tadini  e Melina Scalise vi augurano un buon rientro d’arte a Milano e vi aspettano a Spazio Tadini. Se volete un magazine online per parlare (o farvi intervistare) delle Vostre iniziative, mostre ed eventi artistici, scegliete Milano Arte Expo!

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Pubblicità online – Tampax – Facile, a prova di uomo – advertising di successo

pubblicità Tampax

pubblicità Tampax – l’inizio del filmato online su Youtube

Pubblicità online – Tampax – Facile, a prova di uomo – advertising di successo. E’ un formidabile spot pubblicitario o un catastrofico boomerang (come sembrano indurre a pensare alcuni commenti online) quello che racconta un prodotto femminile – il Tampax – con una serie di prove di utilizzo – eseguite da maschi con oggetti normalmente impiegati o indossati da donne – con relativi successi parziali e… successo finale assoluto con la comprensione della facilità d’impiego del Tampax?

A giudicare dai motori di ricerca è un boom, è perfetta. Oggi, digitando la parola “pubblicità” in Google, nella finestrella in alto compare immediatamente il Publicis Italiasuggerimento della seconda parola da associare alla prima: è “Tampax”! L’algoritmo del più gettonato motori di ricerca vuol pur dire qualcosa!

Poi clicco sul link allo spot Tampax pubblicato su Youtube – il film pubblicitario è online dal 29 apr 2015 – e l’occhio cade immediatamente sul numero di visualizzazioni: 897.854. Con relativi indici di gradimento e “non gradimento” (pollice in su e pollice verso) che sono: 458 “mi piace” e 251 “non mi piace”.

Direi che le quasi novecentomila persone che hanno cliccato per vedere lo spot della Tampax rappresentano una massa paragonabile ai fans della musica rock! Per fare qualche rapido paragone, un video del concerto dei Pooh a San Siro nel 10 Giugno 2016 ha raggiunto il numero ben più modesto di 31.291 clic. “Taste the Feeling” con la voce di  Conrad Sewell per Coca Cola “nemmeno” le 30 mila visualizzazioni… e stiamo parlando di un prodotto mondiale bevuto (credo) sia da uomini che da donne!

Le critiche che ho letto alla pubblicità Tampax vertono soprattutto sulla imbranataggine – un po’ stereotipata – dei maschi alle prese con gli oggetti femminili e sul fatto che, “così” non si promuova la parità di genere.

Ma perché? A parte il fatto che non sta alla Tampax promuovere l’affermazione di un concetto politico e sociale fondamentale come la “parità di genere“, trovo che l’ironia con la quale Tampax tratta gli uomini sia quella giusta per un racconto della durata di poco più di una manciata di secondi (la pubblicità online su Youtube ha la durata di 1’53”). Gli uomini – per la prima volta protagonisti nel racconto pubblicitario di una merce squisitamente femminile – escono bene. Se vogliamo, anche per la simpatia indiscutibile dei volti scelti da un casting e da una regia che giudico veramente notevole.

Io voto 10 e lode per questo spot pubblicitario Tampax realizzato con strategia – se non vado errato – e progetto firmato Publicis Italia (agenzia guidata da Bruno Bertelli, ECD Cristiana Boccassini).

Giudicate voi. Ma senza pregiudizi “di genere”, please! E’ creatività made in Italy alla grande. Di quelle di cui dovremmo andare fieri e felici.

Ecco il video:


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Motori di ricerca e grandi città: ricerche di tendenza per i SEO

motori di ricerca

motori di ricerca – la schermata di Google immagini alla ricerca “Milano”

Motori di ricerca e grandi città: ricerche di tendenza per i SEOMilano: 460 milioni di risultati tra GOOGLE e BING per la città metropolitana. Cerca nei due principali motori di ricerca la parola “Milano” e assisti alla velocità (alla quale ormai siamo abituati) delle risposte. Google ti restituisce 353.000.000 risultati in 0,55 secondi. BING 106.000.000. Mi riempie di orgoglio abitare un capoluogo così gettonato.

Per fare un piccolo confronto con altre città famose – e universalmente riconosciute come mete turistiche – parto dalla ville lumière, Parigi. Ebbene, per le ricerche sulla capitale francese Google risponde con “modesti”  34.900.000 risultati. Parlando della capitale britannica le cose non cambiano, poi, molto: circa 48.500.000 risultati. Barcellona – l’amata spagnola – totalizza 18.300.000 risultati.

Poi attraverso l’oceano, regno dei grandi motori di ricerca e digito il nome della città della California meridionale a nord del confine con il Messico: San Diego. Popolazione: circa 1,356 milioni di abitanti. Bella. Bellissima. Ma…. Google dice: 409.000.000 risultati….

Non pago di questo bizzarro confronto mi spingo a scrivere sulla finestrella di Google il nome della città – vi risiedono circa 77.846 persone – che è  quartier generale del grande motore di ricerca. Il risultato è  143.000.000.

Mountain view straccia Parigi 143 a 34.

Vero è che ho utilizzato la “sezione” italiana del motore di ricerca: google.it. Con il “punto com” le cose sono ribaltate. Ma, mi domando: gli italiani sono talmente a caccia di informazioni su San Diego e Mountain view e talmente disamorati della capitale francese? O c’è qualcosa che io non comprendo affatto del funzionamento del più grande motore di ricerca del mondo? C’è qualche espertissimo SEO che può rispondermi?

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Milano 16 agosto 2016 un’idea dalla città di Expo – di Francesco Tadini

Francesco Tadini

Francesco Tadini – un’idea per Milano

Milano 16 agosto 2016: un’idea dalla città di Expo. Passando di fianco – rigorosamente in bicicletta – all’area dove si è svolto Expo 2015 – a Francesco Tadini viene un po’ di nostalgia ricordando gli sfavillanti padiglioni dell’Esposizione Universale. Ne abbiamo parlato molto sul magazine di Spazio Tadini, con un bel numero di racconti della brava Michela Ongaretti (leggili al >LINK). Ma come è questa Milano assolata e appena impigrita dall’estate 2016, ma che sembra conservare quasi intatta la sua vitalità metropolitana, a giudicare dagli eventi, dai concerti, da molti esercizi commerciali aperti, dall’appena conclusa Estate Sforzesca con tutto il suo corposo programma?

Scrive Dino Buzzati – in un’articolo del 15 agosto 1964  “…Gli ultimi Ferragosti, anzi, del ‘61, del ‘62, del ‘63, avevano dato l’impressione di una certa ripresa vitale, nel senso che la città conservava un aspetto abbastanza cittadino. – il pezzo è stato ripubblicato dal Corriere della Sera in questi giorni – Quest’anno invece, e con un anticipo di vari giorni, un vuoto meraviglioso. Meraviglioso o inquietante? (…)”

Il 1964 era un anno culmine per l’economia e lo slancio italiano. E a Milano, poi! Quali novità? Nutella per i golosi, tanto per dire, ma non solo milanesi… Poi? Beh, innanzi tutto – io avevo tre anni – l’inaugurazione della prima linea, la rossa, della metropolitana: un capolavoro anche di architettura, design e grafica. Il progetto, realizzato da Franco Albini e Franca Helg, e la segnaletica del metrò, disegnata dalla mano magica di Bob Noorda. Poi ancora? Ecco: senz’altro l’apertura dell’Autostrada del Sole con i sui 761 chilometri che collegano Milano e Napoli. Il Nord e il Sud simbolicamente – e non solo – uniti da un’arteria dove non scorrono globuli rossi ma, in abbondanza, persone, sogni, idee… Forse è per questa ragione che la Milano del ’64 – per come ne parla Buzzati, diventa “fantasma”. L’irrealtà – fino a pochi anni prima – diventa la realtà di un Paese unito, finalmente, dopo la ricostruzione del dopoguerra… E poi? Nasce la Sip, che installa cabine telefoniche ovunque: anche nella provincia più sperduta. Vi sembra poco? Altro che internet: in quel momento voleva dire tutto. Significava la nascita dell’era della comunicazione, nella quale l’individuo poteva raggiungere – con la propria parola – qualunque altro cittadino… e dire “ti amo” …e l’altro poteva rispondere: “…ma quanto mi ami?”.

Torniamo alla Milano odierna. A questo agosto dell’anno successivo alla grande ribalta di Expo. E comprendiamo subito una cosa: il capoluogo lombardo non si spegne mai perché – innanzi tutto – ha una nuova popolazione residente costituita da masse di neofiti. Di immigrati. Di profughi da orrende guerre. Di gente che trova fantastico affidare le speranze di una vita migliore per i propri figli ai tetti della Madonnina! E le strade della movida sono piene anche a Ferragosto. La nuova Darsena e la zona tutta dei Navigli, poi, sono brulicanti di un popolo che non sente la nostalgia delle spiagge o dei monti. E che non ha affatto l’aria mesta di chi “deve” accontentarsi.

Il nuovo sindaco Beppe Sala sostiene che “Milano è un territorio dove si possono fare delle ottime sperimentazioni di questo nuovo modello di accoglienza”. Lo dice chiedendo – ragionevolissimamente –  fondi Europei per consentire all’Italia e alle sue metropoli di gestire al meglio la questione profughi.

Sono, in tutta modestia, totalmente d’accordo con Sala. Milano è diventata – se lo è conquistato – città dell’accoglienza e della sperimentazione.

Butto lì un’idea…. L’ISIS ha distrutto l’arco di trionfo di Palmira… E se lo ricostruissimo a Milano, magari nell’area Expo? Dico: se mettessimo all’opera un gruppo di giovani scenografi (magari da tutto il mondo e di tutte le religioni) e provassimo a rifarlo in una scala adeguata? Potrebbe seguire la ricostruzione di altri “simboli” non solo legati a un credo ma – più in generale – al bisogno di “far memoria” e di unire i popoli accanto al “bello”, all’arte …alle cose che rimangono e si tramandano nei millenni, a ciò per cui vale la pena di viaggiare e scoprire personalmente …. a ciò che può indurre un flusso turistico, oltretutto!…

Francesco  Tadini

contatti Francesco Tadini: francescotadini61@gmail.com – mob. 3662632523

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Trenord Milano, trasporto biciclette: il supplemento alla tariffa dei biglietti che fa portare la bici in treno

Trenord Milano

Bici in treno con Trenord Milano. Nella fotografia di Francesco Tadini, la Stazione Centrale

Trenord Milano – trasporto biciclette: il supplemento alla tariffa dei biglietti che fa portare la bici in treno… e volare con tutto il tempo libero in città piccole e grandi alla scoperta delle meraviglie del nostro territorio. In Lombardia si viaggia sui treni Suburbani “S”, Regionali “R”, RegioExpress “RE” nonché Regionali veloci “RV” con la bicicletta al seguito. E il supplemento – davvero conveniente – vi permette, sui treni indicati nell’orario ferroviario con il simbolo della bicicletta, di spostarvi in luoghi che difficilmente raggiungereste pedalando (pur essendo la Lombardia vera campione di piste ciclabili). Con 3,00€ il supplemento bicicletta Trenord è valido 24 ore dalla convalida sui treni entro i confini tariffari della nostra regione. Con 1,50€ la validità riguarda, sempre di 24 ore dalla convalida, i treni entro i confini tariffari della città di Milano. Con 60,00€ otterrete (oh Voi ciclo/treno maniaci) l’abbonamento annuale / supplemento bicicletta con validità sui treni entro i confini tariffari della regione Lombardia.

Tenete presente che Trenord non permette il trasporto di più di una bicicletta per viaggiatore, che dovrete fare da voi (con un impegno che dipende molto dal peso della vostra bici e dagli eventuali borsoni) il carico e lo scarico della bici dai treni.

Il sottoscritto Francesco Tadini e l’inseparabile moglie Melina Scalise – fondatori di Spazio Tadini – dichiarano: “Siamo ormai affezionatissimi a questa soluzione per il tempo libero offerta da Trenord con la possibilità di portarsi le biciclette in treno. Mete culturali e paesaggi tutti da scoprire finalmente alla portata di pedalatori non professionisti e non allenatissimi. Milano e la Lombardia stanno diventando, tra piste ciclabili e opportunità come questa, la capitale del cicloturismo italiano.

Provate a raggiungere la rete – davvero fitta – di piste ciclabili lontane (quanto basta) da Milano con il biglietto Trenord con supplemento biciclette e potrete pedalare il “ritorno” incrociando scorci naturali, vecchie cascine e (non poche davvero) meraviglie artistiche e architettoniche che sfuggirebbero a qualunque viaggiatore veloce dotato di automobile o motocicletta!

Rallentate i vostri ritmi di vita, anche solo per un sabato o una domenica – grazie alla soluzione treno – bici Trenord – e vi sentirete meglio: fisicamente e spiritualmente.

Stazione Centrale Milano

Foto di Francesco Tadini – Stazione Centrale di Milano, dettaglio

 

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Bakeca incontri Milano, donna cerca uomo, uomo cerca uomo, cerco amici: tutti cercano sesso e amore

Bakeca incontri Milano

dedicato agli annunci gratuiti di Bakeca incontri Milano

Bakeca incontri Milano, donna cerca uomo, uomo cerca uomo, cerco amici, donna cerca donna: tutti cercano sesso e amore… Non mancheranno – in questo blog demenziale milanese dedicato ai flussi d’incoscienza – anche “scandagliate” nei siti internet molto gettonati – molto “google trends” – degli annunci di incontri online. Milano è grande e , come tutte le metropoli, offre una quantità enorme di occasioni di incontro diretto tra le persone. La Milano da bere ha locali, ristoranti, street food, fast food, bar di ogni tipo, discoteche e balere, club privati, musei, gallerie d’arte, piazze… dove sarebbe facile incontrare persone in cerca di amicizia, di affetto, di considerazione, di sesso… o anche solo vogliose di scambiare quattro chiacchiere. Poi c’è Facebook e la gamma intera dei social network dove ogni “donna che cerca un uomo” – e viceversa (con tutte le sfumature e la gamma di genere possibili) – può, senza esporsi in prima persona e con la “mediazione” del virtuale, incontrare, scambiare opinioni e idee, parlare di sé e della propria solitudine, o della ricerca di un partner eccetera…

Eppure, una delle ricerche sul web più in voga – stando alla “sezione meneghina” di Google trends – è quella che mette al centro Bakeca Milano: notare la lettera “K” che sostituisce – come un lapsus freudiano – le due lettere del “CH”. Condensazione e rapidità. Non perdere tempo a scrivere due lettere quando se ne può utilizzare soltanto una. Come dire: oggigiorno è importante che ogni ricerca (anche per una casa in affitto o per un lavoro: Bakeca è un sito dedicato a ogni tipo di annunci) vada al sodo dritta e veloce come un treno Freccia Rossa!

Si trova di tutto e di più, su Bakeca incontri Milano. Cerchi amici? Ecco che si fa avanti un soggetto che mette in fila le priorità dell’incontro con un “Ho desiderio di ascoltare, ammirare, assaggiare, annusare, toccare una Donna…“. Non si capisce bene cosa intenda per “assaggiare”, ma tant’è: siamo in epoca di finger food!

Regressioni infantili? Ecco il tipo che cerca “una ragazza per andare gardaland con me il 16“. Sulle giostre si perde l’equilibrio. Sarà per quello?

Poi c’è un classico dei classici (ormai…): “cerco trombamica: Io 30enne curato e sportivo cerco donna con cui trasgredire con rispetto e riservatezza“. La categoria della “trombamicizia” – pare in voga – è simbolo dei tempi? Amicizia e sesso senza impegno, “solare” (ben illuminato e abbronzante?), per rapporti non duraturi nel tempo? Sarà per paura del matrimonio? Sarà per paura di legami fissi che tendono alla noia? … Oppure sarà anche per il terrore di sembrare solo “curati e sportivi” ma senza l’immaginazione e la costanza necessari a fondare un rapporto duraturo?

Divertente l’annuncio odierno su Bakeca incontri Milano che titola: “Cerco qualcuno per fare le femminucce insieme” e specifica – nel cuore narrativo del post – “Sono crossdresser con la fantasia dei vestitini e trucchi da donna e vorrei trovare una sorellina come me per farlo insieme. Non ho esperienza, e i maschi maschi non mi attirano, ma mi mi intriga l\\\’idea del pisello“. I maschi non lo attirano ma viene magnetizzato dall’idea del pisello. Va bene. Ci sta anche questo. Ci sta di tutto, oggi. ….anche se viene da chiedersi: perché i maschi non lo attirano ma il pisello si? L’anatomia si ma non il carattere? Forse è questo – e come dargli torto, considerando molti “caratteri maschili” in circolazione – il punto. Forse è che la maschilità “curata e sportiva” con un bel Rolex al polso, tutta apparenza e poca sostanza (e, oltretutto, una sostanza machista e maschilista, quando c’è) lo allontana. Forse, al di la dei gusti sessuali di ognuno – che qui certo non sono in discussione – noi uomini dovremmo interrogarci molto seriamente sulla possibilità di tradire i luoghi comuni vetusti e orripilanti della mascolinità … e accettare (e provare) di essere più femminili e aggraziati, più paritari e meno alla ricerca del potere…

Soldi, potere, sesso. Ecco l’equazione che fa “girare” il mondo da millenni. Diamoci un taglio! O no?

E allora, per dire di Bakeca incontri Milano – parlo soprattutto delle sezioni donna cerca uomo e uomo cerca uomo –  la si smetta di fare soldi con annunci (neanche troppo mascherati) che inneggiano ad un sesso mercenario repellente. La “bellissima sexy”, la “SIGNORA I T A L I A N IS S I M A 6 SENO NATURALE FANTASTICO”, la “NUOVA ARRIVATA* bella giapponese”, la “RAGAZZA SEMPLICE 28 ANNI ITALIANA,160 PER 45 KG,RICEVO PISSING SU CORPO(STUDIO CON DOCCIA)” oppure il “monello 28enne cerca severi educatori, anche stranieri per essere punito e ricondotto sulla retta via” o il/la “troietta skiava solo ed esclusivamente per maturi e molto maturi autoritari” … non fanno del bene alla causa della parità sessuale. Sono un inno allo status quo.

Mi si obietterà con due classici argomenti: “la prostituzione è sempre esistita” e “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Io non sono un moralista: chi vuol vendere il proprio corpo resti libero di farlo. E chi “si sente solo” faccia pure la sua “libera scelta” su questo “libero” mercato.  Parlo di comunicazione e di pubblicità. E dico: finché gli stereotipi della cultura “autoritaria” maschilista saranno proposti con tale immediatezza e quantità non usciremo dalle secche di un rapporto tra sessi sbilanciato dal mito del potere. Finché la parola “virilità” verrà connessa all’uso e all’abuso del potere avrà ben ragione colui che dice “… i maschi maschi non mi attirano, ma mi mi intriga l\\\’idea del pisello”.

Io non sono per la censura: non chiederei mai di proibire. Chiedo di riflettere e di “modernizzarsi”. Chiedo a chi fa e riceve “mercato” del sesso di pensare alla parità di genere anche redigendo un annuncio per Bakeca incontri Milano o per qualsiasi altro sito, giornale o rivista che ne ospiti.

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Milano San Siro: Milan – Torino e Inter – Palermo nello stadio più capiente d’Italia

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Stadio San Siro Milano – prossime partite e tanti ricordi … concerti e amici…

Milano San Siro: Milan – Torino domenica 21 agosto 2016 ore 18:00; Inter – Palermo domenica 28 agosto 2016 ore 18:00 (salvo anticipi o posticipi della giornata da parte della Lega Calcio). Nello stadio più capiente d’Italia intitolato a Giuseppe Meazza (gran calciatore e allenatore di calcio, nato a Milano nel 1910 – morto a Rapallo nel 1979) dall’anno 1980, ci vorrei tornare. Vi manco da innumerevoli anni e uno dei suoi 81.277 posti potrebbe tornare a essere occupato da Francesco Tadini.

Torno follemente indietro (una certa “follia” è parte integrante di questo blog, dedicato ai flussi d’incoscienza… o d’incoerenza) agli anni nei quali, oltre a qualche partita di calcio, vi seguivo i concerti. Mi rotola in mente Bob Marley con il suo bravo (mitico!) live a Milano S. Siro del 27 giugno 1980… – riascoltalo su Youtube al > LINK – Mi scende anche una lacrima riascoltando (sintonizzato sul canale /memoria) No Woman No Cry… Mamma mia i ricordi! Mamma nostra… gli amici, le fidanzatine e tutto il resto. Un ventisette giugno di trentasei anni fa si era allo Stadio di San Siro per i concerti (non solo Bob Marley!) per prepararsi all’estate del Gruppo. Dico: un gruppo di una trentina (circa) di amici che correvano “da Bertoni” (mega negozio di campeggio) per mettere insieme l’attrezzatura adatta al “campeggio libero” in Grecia. E poi via. In treno fino a Brindisi. In nave da Brindisi a Patrasso. In autobus da Patrasso ad Atene. In autostop fino al camping di Atene… e poi, ancora, in nave dal Pireo (il porto di Atene) fino a una di quelle magiche isole greche dove avremmo sognato ad occhi aperti l’amicizia per sempre, l’amore per sempre… la moussaka per sempre…

Si: bisogna che ci torni allo Stadio San Siro di Milano, a fare un bagno di ricordi e ad assaporare un po’ di sport o della buona musica. Devo tornarci con il mio vero e unico “amore per sempre”: Melina Scalise.

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Milano, la bicicletta di Francesco Tadini e l’idea di un festival

Francesco Tadini

Francesco Tadini, Milano, via Jommelli 24 – flussi d’incoscienza

Milano, la bicicletta di Francesco Tadini  e l’idea di un festival. Informando i signori navigatori che questo blog servirà solo a fornire degli indizi sugli interminabili flussi di coscienza a ruota libera di Tadini – il vero sito, già più che “in costruzione” è a > questo LINK – mi rassereno pedalando qualche parola. La ruota anteriore di Francesco gira con la stessa velocità di quella posteriore: la rassicurazione arriva da un centro studi dislocato nel miglior emisfero cerebrale che io abbia mai trovato nel nuovo Brain Sharing di Milano (l’indirizzo vorrei che fosse, a poter scegliere, in Piazza Gae Aulenti, nel centro nuovo del capoluogo lombardo: il più fotografato da turisti e instagramers). L’idea di un festival dedicato al simbolo di quella che – la dritta arriva da gente seria – è l’economia condivisa (o “da condividere”?) del futuro mi è venuta sui pedali. La Bici val bene una Messa. E vale anche una mostra. Dove? A quello Spazio Tadini di via Jommelli 24 (nel quale abbiamo, per inciso, appena finito di installare l’aria condizionata) nel quale qualcuno di voi – “miei ipocriti lettori” – ha già zanzato più di un aperitivo da inaugurazione. Un festival Bici / Arte? Solo in via Jommelli? Certo che no: io la regina di Spazio Tadini – al secolo Melina Scalise – stiamo pensando di spargerlo per la città di Milano. In più punti. Non solo gallerie d’arte. Potrebbe essere condiviso anche dalla rete culturale (e non solo culturale!) delle Anime Nascoste fondata dall’eccellente Alberto Oliva? Chissà mai? A furia di pedalare arriveremo pure da qualche parte? E le la parte non esistesse? E se trovassimo solo un gran Tutto gremito di gente? Potremmo, allora, parcheggiare le nostre bici alla rastrelliera e levare il grido “Viva Milano!”?

Nel frattempo, in questa estate milanese ricca di eventi – basti pensare all’Estate Sforzesca 2016 (e il suo ricchissimo programma), per dire – il sottoscritto Tadini e Melina Scalise si imbottiscono di panini al Politico – adiacente al Castello Sforzesco – e si sciolgono d’amor per i gelati di via Accademia (i migliori dei mondi)!

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Francesco Tadini – leggi al nuovo sito francescotadini.it del Morgan’s Paint, 1972

Tadini

Emilio-Tadini-Paesaggio-di-Malevic-1971

Francesco Tadini – leggi al nuovo sito francescotadini.it del Morgan’s Paint, 1972. Sul blog con grafica rinnovata del fondatore di Spazio Tadini – insieme alla giornalista Meliona Scalise – a serie di documenti d’archivio della storia dell’arte italiana dal dopoguerra a oggi. Alla  Loggetta Lombardesca di Ravenna si svolge, nel 1972, la quarta edizione del Premio / Biennale Morgan’s Paint. Dal catalogo della mostra: Quarta Biennale Morgan’s Paint, il testo di Emilio Tadini – presente all’esposizione con tre opere: Pesaggio di William Blake, Paesaggio di Malevic e Viaggio in Italia.

… Mi sembra che nel lavoro del figurare si possono trovare molte analogie con quello che è il lavoro del sogno. È chiaro che non c’è proprio niente di sognante in tutto questo.
Non si tratta di un’analogia fra pittura e sogno per quanto riguarda il tipo delle immagini… Si tratta di una analogia di funzionamento.
Il sesto capitolo della “Interpretazione dei sogni” è intitolato “il lavoro onirico”.
L’uso della parola “lavoro” è carico di significato: è rivelatore. Freud non si propone di decifrare un cifrario, ma di analizzare un processo in atto. Non vuole compilare un dizionario: vuole piuttosto elaborare una sintassi. > continua a leggerlo al >LINK

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