Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani – in un testo di Oreste de Buono – dalla rivista Quaderni Milanesi, primavera 1962
Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, romanzo, 1962 – di Oreste del Buono (in Quaderni Milanesi) Gli occhiali d’oro, il bellissimo racconto imperniato sulla tragica ansia d’amore del dottor Fadigati, pareva un culmine difficilmente superabile nella carriera letteraria, cauta eppure ricca, di Giorgio Bassani. Ma con questo romanzo, Il giardino dei Finzi-Contini, appena edito da Einaudi, una misura che lo scrittore non aveva mai affrontato – Bassani ci dà un testo ancora più denso, commosso e commovente, un testo dotato d’una sua dolcezza e d’una sua perentorietà veramente innegabili, saremmo quasi tentati di dire impareggiabili nel quadro della nuova narrativa italiana.
Il lavoro al suo primo romanzo ha occupato Bassani dal ’58 al ’6i. Rispondendo tre anni fa a un’inchiesta di Nuovi Argomenti lo scrittore affermava: «Non credo alla crisi del romanzo (italiano). Altrimenti, come potrei pensare di scriverne io stesso? Sto tentando di scriverne uno, infatti: forse non riuscirò a realizzarlo come vorrei, forse non riuscirò nemmeno a portarlo a termine. Eppure, quando mi sarò reso conto, ancora una volta ,della mia impotenza, mi guarderò bene dal cadere nell’errore di molti, sempre pronti a imbastire sulle proprie debolezze e deficienze delle teorie generali. Penso a Pavese, alla sua insofferenza di dieci anni fa nel sentire queste stesse campane a morto. Penso anche all’esempio di Stevenson. Stevenson era Stevenson, d’accordo : ma bisognerà pure imitare la sua fede, ripartire ogni volta, come lui, gettando tutta la posta sul tavolo, avendo per mèta il capolavoro ! In caso contrario che senso avrebbe tenere la penna in mano? …» Raramente abbiamo visto le ipotesi enunciate in un’inchiesta venire così puntualmente confermate dalle realizzazioni. Bassani ha avuto fede nel romanzo e in se stesso come autore di romanzo, non ha avuto paura della meta che si proponeva, a questa passione e a questo coraggio dobbiamo il libro che abbiamo appena finito di leggere e di cui vogliamo subito segnalare l’importanza.
Sempre tra le risposte di Bassani alla stessa inchiesta troviamo le affermazioni : «In Italia, comunque, dubito che possa nascere nulla di veramente utile, oggi, nel campo della narrativa, al di fuori della letteratura. Alcuni miei amici, per altro finissimi letterati, sono di avviso contrario. Io, per me, persisto a non dar molto credito, qui da noi, agli ex camionisti, o ex sguatteri, o ex ciclisti, o ex aviatori, ecc. ecc. audacemente indottisi (da soli, o istigati da terzi) a scrivere racconti e romanzi di vaga eco hemingwayana, come se Hemingway, dal canto suo, a parte le personali pose da protagonista, da «duro» romantico-decadente, non fosse poi un letterato di prima forza. . . Si sa che tutte le strade vanno bene, o male: e che l’unica cosa necessaria a un romanzo perché funzioni — l’unica che l’acqua del suo linguaggio deve lasciar trasparire – è la ragione per la quale esso è stato scritto, la sua necessità. . . Non sarà magari attraverso un ripensamento storico della nostra realtà nazionale che sarà possibile uscire dalle secche crepuscolari e sentimentali del neorealismo postbellico? . . . Come scrittore, ho sempre guardato più all’8oo che al ’goo; e fra i grandi romanzieri di questo secolo, a quelli come Proust, James, Conrad, Svevo, Joyce (il Joyce dei Dubliners’) e Thomas Mann, ad esempio, che derivano direttamente dal secolo scorso. Personalmente, non ho ambizioni letterarie di tipo balzachiano. Non mi importa nulla dare un quadro generale della nostra società. Vorrei poter scrivere qualcosa che si avvicinasse al lirismo e alla tensione narrativa dei Malavoglia, di Senilità, e soprattutto della Lettera Scarlatta di Haw- thorne : libro che non posso rileggere, ogni volta, senza provare la più violenta commozione. . .»
La novità del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini
Bassani verrà preso, forse, — quando questo numero della nostra rivista uscirà il libro avrà già cominciato la sua vita ufficiale – come vessillifero del più acceso ritorno all’8oo narrativo da tutti quei critici e recensori in malafede che temono una cosa soltanto a questo mondo: trovarsi davanti a un libro per cui non abbiamo già pronti gli schemi, le reti, un libro che non possano giudicare come ne hanno già giudicato un altro, più altri : tutti coloro che prediligono i testi nati vecchi, consunti, i testi effettivamente formalisti con, dentro, appena l’ammiccare di un contenuto creduto nuovo, o almeno attuale, esulteranno, forse, per II giardino dei Finzi-Contini. Poco male: una volta tanto faranno una cosa giusta, sbagliando. Perché questo romanzo di Bassani è nuovo, radicalmente nuovo, nella sua vernice di apparente, esclusivo rispetto per quanto è decorosamente antiquato. La letteratura umanissima di Bassani, il suo rigore stilistico non vanno mai disgiunti in II giardino dei Finzi- Contini da una spregiudicatezza agguerrita, persino un poco crudele, capace di togliere di mezzo di colpo qualsiasi patina patetica per mostrare persone fatti cose in una luce esattissima.
Il giardino dei Finzi-Contini è deliberatamente — persino troppo deliberatamente – romanzo d’amore. L’amore del narratore – questo occhio, questa coscienza instancabilmente in giro per una Ferrara sempre più centro dell’universo, sempre più universo, fulcro e misura d’ogni avvenimento storico o viscerale – per una voce, un sorriso, un’ombra che potrebbero essere soltanto quelli di un’età. «Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957 …» È l’inizio, il prologo del romanzo, sei pagine in cui, in fin dei conti, nella contenuta foga della prosa di Bassani è già annunciato, simbolicamente – e persino praticamente – tutto. Quella domenica d’aprile del 1957, nel corso d’una gita fuori Roma, il narratore è condotto in macchina da amici tra le tombe etrusche di Tarquinia. Sulla macchina è una bambina, Giannina che all’idea di trovarsi tra gli antichi sepolcri sospira una sua malinconia almeno un poco sospetta di convenzionalità puerile. «Nel libro di storia gli etruschi stanno in principio, vicino agli egizi e agli ebrei. Ma senti, papà : secondo te, erano più antichi gli etruschi o gli ebrei?», dice la bambina. L’interpellato scoppia a ridere. «Chiedilo a quel signore lì», dice, accennando al narratore. Giannina si volta. Con la bocca nascosta dall’orlo dello schienale, scocca una rapida occhiata, severa, diffidente. Il narratore aspetta che lei ripeta la domanda. Ma niente: la bambina torna subito a guardare davanti a sé. In un lampo, la materia dolente del romanzo affiora. Bastano poche battute scambiate tra il padre e la bambina per farne diventare l’evidenza quasi insopportabile. «Papà», domanda ancora Giannina, «perché le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove?’» L’altro risponde «Si capisce. I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti». Ma la bambina replica: «Però, adesso che dici così, mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri». L’insopportabilità dell’evidenza riapre la piaga della memoria, e l’arte si propone come una specie d’esorcismo, la tragedia, nell’incrociar- si di memoria e arte, diventerà favola. Il narratore ritorna a Ferrara, a un’altra tomba, «E mi stringeva come non mai il cuore al pensiero che in quella tomba, istituita, sembrava, per garantire il riposo perpetuo del suo primo committente – di lui, e della sua discendenza -, uno solo fra tutti i Finzi-Contini che avevo conosciuto ed amato io, l’avesse poi ottenuto, questo riposo. Infatti, non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ’42 di un linfogranuloma. Mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchissima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi.» Così conclude il prologo accentrato tutto su una intermittence du coeur.
Giorgio Bassani e Proust
Bassani non maschera minimamente la natura proustiana di questo suo ritorno al passato. Anzi pare proprio calcarvi sopra la mano, insistervi come a togliere possibilità di dubbi e sospetti futuri. Non l’ha ripetuto sino alla nausea Proust che la memoria volontaria non ha alcun valore come strumento d’evocazione e ci fornisce un’immagine tanto lontana dal reale quanto il mito della nostra immaginazione o la caricatura fornitaci dalla percezione diretta? Il narratore da molti anni desiderava scrivere dei Finzi- Contini ma è solo quella domenica dell’aprile del 1957 che il sovrapporsi delle pietose parole della bambina ai suoi pensieri, e della goffa immagine della tomba dei Finzi-Contini a quelle etrusche gli rende possibile l’avvio al recupero del passato. Questa citazione – possiamo proprio chiamarla così – proustiana tanto deliberata è la prima prova della sicurezza di Bassani, del controllo lucido, assoluto dei suoi impulsi morali, delle sue possibilità formali. Infatti, l’znfermiìfewe du coeur fa parte della stessa descrizione dell’interno, della stessa identificazione, della stessa messa in evidenza del personaggio del narratore, che sarà sempre tutto giocato sull’incrocio l’amalgama o la soluzione di due culture, una aperta verso ogni letteratura, l’altra addirittura regionalmente italiana. Il personaggio è individuato in un suo farsi non sbrigativo, non sempre agevole abbastanza lento, tra impacci di vario genere, e questa formazione culturale è non meno materia del romanzo di quella sentimentale. Il prologo, essendo più vicino al lettore nel tempo dello stesso epilogo, contiene come la gioia, almeno la disinvoltura di usare, anzi di vivere la intermittence du coeur per riannodare i legami con i sogni, le delusioni, gli anni perduti.
Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti. «L’uomo», diceva Proust, «è una creatura che non può uscire da se stessa, che conosce gli altri solamente in se stessa e che, se afferma il contrario, mente.» Cosa potrà conoscere il narratore della sua Micòl? La vedeva in sinagoga quando erano bambini – e- ducatamente ma fermamente come in un rovesciamento di polemica razziale la Ferrara di Bassani s’è andata sempre più restringendo alle quattrocento persone della comunità ebraica : e, proprio tra le pagine migliori di questo nuovo libro vanno comprese quelle dedicate alla descrizione, all’individuazione, appunto, di questa comunità ebraica, in cui avviene la sintesi dell’universo narrativo — oppure in occasione degli scrutinii e degli esami a scuola. I ricchi Finzi-Contini erano portati a una esistenza esclusiva e come schifiltosa, a un superbo esilio nella loro magna domus al centro del loro immenso giardino: come avvicinare maggiormente Micòl, quando tutto tende, invece, ad allontanarla?
Il giardino dei Finzi-Contini e Micòl
Micòl appare al narratore come la Pisana o Gilberte nella folgorazione e lo sfondo d’una natura persino corruttrice. Affranto per essere stato rimandato a ottobre in matematica il ragazzo non ha osato tornare a casa, erra a lungo in bicicletta sinché stremato dal caldo si butta a riposare sull’erba. Un richiamo cauto lo sveglia, si ripete, costringendolo a levare il capo, a socchiudere gli occhi nel riverbero, ed ecco Micòl sporgersi dal muro di cinta del giardino dei Finzi-Contini. E il loro primo vero incontro, sono le vere parole che scambiano, lei un poco ironica, un poco sprezzante persino dall’alto non tanto del muro quanto della sua solitudine ebrea nei confronti di lui, l’ebreo quasi rientrato, assorbito nei ranghi degli altri, «Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Tuttavia, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini è ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla. Era poco più che una bambina, nel 1929, una tredicenne magra e bionda con grandi occhi chiari, magnetici. Io, un ragazzetto in calzoni corti, molto borghese e molto vanitoso, che un piccolo guaio scolastico bastava a gettare nella disperazione più infantile. Ci fissavamo entrambi. Al di sopra di lei, il cielo era azzurro e compatto, un caldo cielo già estivo, senza la minima nube. Niente avrebbe potuto mutarlo, e niente l’ha mutato, infatti, almeno nella memoria. . .» Quando potranno avvicinarsi di più il narratore e Micòl? Dieci anni dopo, quando le leggi razziali, incerta, ancora goffa imitazione della pazzia tedesca entreranno in vigore anche da noi, i Finzi-Contini recederanno almeno parzialmente dalla loro solitudine: apriranno il giardino e persino la magna domus a qualcuno dei ragazzi ebrei che le recrudescenza d’antisemitismo ha privato d’una vita sociale. Tra questi ospiti è, naturalmente, il narratore e, tra tutti, è quello che resiste. Così, a un tratto, tra lui e Micòl i rapporti finiscono per complicarsi, anche se apparentemente non accade nulla o quasi. Un giorno in cui la pioggia li ha sorpresi mentre vagavano nel giardino sterminato, i due ragazzi entrano a ripararsi nella rimessa, e lì in un attimo senza muoversi, né parlare, senza forse neppure pensare, esperimentano la difficoltà, l’impossibilità di un amore tra loro. È Micòl a rendersene conto, il narratore no. Incredulo, la sente d’improvviso ribellarsi a qualcosa di cui lui non è esattamente cosciente. «Sbuffò annoiata. “Non dire stupidaggini per favore!” Mossa da un impulso imprevedibile si era scostata bruscamente da me, rannicchiandosi nel suo angolo. Ora guardava davanti a sé, corrugando le sopracciglia, i tratti del viso affilati da un’espressione di strano livore. Pareva improvvisamente invecchiata di dieci anni. . .» I loro rapporti non si riavranno più da questa crisi. Lui insisterà : oserà baciarla e perseguitarla con le sue profferte, sinché lei non sarà costretta a mettere tutto in chiaro un giorno o l’altro. «Domandai perché le sembrasse tanto impossibile. Per infinite ragioni – rispose la prima delle quali era che pensare di far l’amore con me le riusciva altrettanto imbarazzante che se avesse pensato di farlo con un fratello, toh, con Alberto. Era vero: da bambina, aveva avuto per me un piccolo striscio-, e chissà, forse era proprio questo che adesso la bloccava talmente nei miei riguardi. Io. . . io le stavo di fianco, capivo?, non già di fronte-, mentre l’amore – così almeno se l’immaginava lei – era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda : uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis !, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi. . . Stupidamente onesti entrambi, uguali in tutto e per tutto come due gocce d’acqua («e gli uguali non si combattono, credi a me !»), avremmo mai potuto sopraffarci l’un l’altro, noi? Desiderare seriamente di sbranarci? No, non era possibile. . .», eccetera. Per questioni di mimesi letteraria, sebbene le ragioni che adduce siano tutte diverse – in fondo, molto meno edificanti anche se non meno astratte, teoriche- nel suo commiato dal narratore Micòl rassomiglia d’improvviso soprattutto all’Alissa gidiana de La porte étroite, ma ogni pagina, in Bassani è eco, riflesso letterario, una letteratura filtrata nel sangue. Così possiamo anche non cercare i riferimenti – sebbene siamo convinti che abbiano precisi motivi di essere e di porsi : la costruzione sempre più complessa del personaggio che racconta la storia, il narratore che abbiamo già incontrato torpido, e pietoso, trascinato a capire nonostante una certa ottusità in Gli occhiali d’oro, ma che somiglia molto, quasi di più al protagonista di un’altra storia ferrarese, Bruno Lattes di Gli ultimi anni di Clelia Trotti — e appagarci di Micòl astratta e carnale, insieme, nella sua sfuggente gentilezza. Proprio come può risultare, più ancora che una incomprensibile – o magari banale – altra persona, un’inattingibile nostra età.
«Ti passerà», dice il padre al disperato narratore, «ti passerà: e molto più presto di quanto tu non creda. Certo, mi dispiace : immagino quello che senti in questo momento. Però un pochino anche t’invidio, sai? Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare. . . Capire da vecchi è brutto, molto più brutto. . .» E l’occasione in cui padre e figlio si riavvicinano : il figlio con la sua delusione amorosa, il padre con il suo fallimento di uomo che ha creduto troppo agli altri uomini. Ma capire cosa? Cosa c’è da capire? Bassani ha messo come epigrafe al suo terribile racconto Una notte del ’43 una significativa citazione da Cechov – un altro degli autori che hanno contato molto per lui -. «Che devo dirvi, le visioni sono spaventose, ma anche la vita è spaventosa. Io, mio caro, non capisco la vita e ne ho paura». La vita continua e il dolore d’un’età diventa una favola, Micòl spicca come un fiore grazioso sull’orlo di una catastrofe mondiale: «Il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga le vierge, le vivace et le bel ajourd’hui, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato. E siccome queste, lo so, non erano che parole, le solite parole ingannevoli e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferire : di esse appunto e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore ha saputo ricordare. . .» – Oreste del Buono
Il testo di Oreste del Buono viene pubblicato nel 1962 sulla rivista Quaderni Milanesi ed è, oggi, anche in consultazione nella biblioteca della Casa Museo Spazio Tadini a Milano.
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